L’ortopedico che va a lavorare ad Abu Dhabi: «Per soldi ma anche per evitare compromessi sulla salute»
Walter Starace, 49 anni, è un ortopedico che ha deciso di cambiare vita come tanti suoi colleghi. Stanco dei turni di lavoro, della burocrazia, delle poche soddisfazioni economiche, prenderà un volo per Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti). Dove «si può svolgere la professione senza scendere a compromessi di sorta per la salvaguardia della salute», rivela a Repubblica nell’edizione romana di oggi, 6 dicembre.
Non è per i soldi
«Superlavoro sottopagato e tanti affanni burocratici, perciò lascio l’Italia e troverò riparo ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati, per cercare di realizzare il sogno di una medicina innovativa, al servizio dei pazienti e della scienza», così dichiara Starace, tra i responsabili ortopedici, nel ministero della Salute, del Servizio sanitario Assistenza ai naviganti e al personale di volo. Non è una questione di soldi: «Certo, anche per questo che, però, non è il motivo principale che i spinge all’espatrio». E lo spiega: «Vorrei poter esercitare in un ambiente favorevole l’assistenza ai malati e nei Paesi del Golfo, Emirati in testa» questo si può fare, sostiene.
I compromessi del servizio sanitario nazionale
Secondo Starace, spesso i medici devono fare i conti con il nostro servizio sanitario nazionale: «La stessa incolumità dei pazienti è subordinata, complice il possibile default della sanità pubblica». Sebbene in certi settori il nostro sistema sia ancora un’eccellenza, è la tendenza in corso che preoccupa Starace: «La deriva che sta prendendo, però, lascia tanti interrogativi insoddisfatti. L’aziendalizzazione della sanità ha trasformato quest’ultima in una merce qualsiasi».
Per l’ortopedico «il servizio sanitario italiano nella pratica assistenziale, in quelle della ricerca e della formazione, da anni, prende schiaffi da destra e da sinistra». E quindi scappa «per avere, anche grazie ai soldi, un’autonomia maggiore e poter sviluppare metodiche chirurgiche lontane da logiche commerciali». Ma ha una speranza, quella «di tornare trovando un servizio sanitario che dia spazio alle competenze». E soprattutto di trovare un Paese che investa risorse «sottraendole a tanti finanziamenti inutili se non dannosi, come quelli per trasferire i migranti in Albania o per il ponte sullo stretto».