Selvaggia Lucarelli, Filippo Turetta e il femminismo 2.0 che «rischia di fare male alle lotte delle donne»
Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano oggi parla di Filippo Turetta e del femminismo 2.0. Ovvero di «una frangia aggressiva, sgangherata e spesso sciatta in materia di diritto, che rischia di fare più male che bene alle sacrosante lotte femministe». Lo spunto è la sentenza che ha condannato all’ergastolo l’omicida di Giulia Cecchettin. Nell’occasione la sorella Elena Cecchettin ha scritto un post su Instagram in cui afferma che «il non riconoscimento dello stalking è una mancanza di rispetto anche alla famiglia della vittima. È l’ennesima conferma che alle istituzioni non importa niente delle donne». Mentre Carlotta Vagnoli, scrittrice e femminista, si è schierata con lei: «Era importante stabilire un nuovo precedente per lo stalking».
Filippo Turetta e l’accusa di stalking
E ancora: «Elena ha ragione, ma evidentemente viviamo in una società in cui dà più fastidio chi cerca di cambiare le cose che la violenza sistemica maschile e un suo riconoscimento anche nelle sentenze». La sorella di Giulia è stata criticata dalla Camera Penale di Venezia dopo le minacce all’avvocato di Turetta Giovanni Caruso. Perché «una sentenza può essere criticata tramite gli opportuni rimedi giudiziari, mentre appare un fuor d’opera farlo sui social, senza neppure avere contezza delle basi giuridiche sottese alle decisione». Eppure, spiega Lucarelli, Turetta è stato «condannato all’ergastolo con l’aggravante della premeditazione. Ha ricevuto il massimo della pena sia in un’aula di tribunale sia fuori». Anche se ci sono calcoli matematici su quando Turetta potrà uscire. In più le sentenze non sono forme di rispetto.
Le sentenze e il rispetto
Servono invece ad applicare la legge. Lo stalking si configura se le condotte persecutorie sono ripetute e provocano nella vittima uno stato permanente di ansia o di paura. Purtroppo nel caso Cecchettin questo non è accaduto. Perché Giulia non aveva compreso quanto fosse pericoloso il suo ex. Anzi, è il ragionamento, si sentiva in colpa per averlo lasciato. «È una questione tecnica, non emotiva. Dunque, accusare “le istituzioni” (chi, poi?) di non proteggere a sufficienza le donne utilizzando la sentenza Turetta come parametro è in questo caso un pretesto anti-pedagogico e infondato. Il femminismo non è e non deve essere demagogia populista perché le scorciatoie demagogiche spesso generano violenza. E il femminismo non deve creare violenza, ma cultura», conclude Lucarelli.