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Trump fa tremare il parmigiano. Dal lobbying alle scorte, così l’agroalimentare italiano si prepara ai dazi Usa

08 Dicembre 2024 - 07:20 Gianluca Brambilla
trump dazi agroalimentare italia
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L'export verso gli Stati Uniti è imprescindibile per molte imprese italiane. Abbiamo parlato con alcuni dei principali marchi del Made in Italy per capire cosa si aspettano

A poco più di un mese dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca c’è soprattutto una questione che spaventa le aziende italiane: lo spettro di nuovi dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti. Negli ultimi mesi, il candidato repubblicano ha ribadito più volte di voler imporre tariffe fino al 60 per cento per i prodotti cinesi e fino al 20 per cento per quelli del resto del mondo, tra cui rientrano anche i Paesi europei. Del resto, non si tratterebbe di una novità assoluta. Già durante la sua prima esperienza alla Casa Bianca, per la precisione tra il 2018 e il 2019, Trump introdusse una serie di dazi che in Italia colpirono soprattutto i prodotti agroalimentari. Succederà anche questa volta? E soprattutto, come si sta preparando il settore?

Più spedizioni per anticipare i dazi? Mutti: «Non è la soluzione»

Un primo indizio arriva dal Financial Times, secondo cui alcune aziende italiane dell’agroalimentare – in particolare quelle dei formaggi – avrebbero aumentato le spedizioni verso gli Stati Uniti per prevenire un possibile annuncio di Trump a inizio 2025 e poter contare su una buona quantità di prodotti già sul suolo americano e quindi esentati da eventuali dazi. Ma in realtà la strategia non sembra essere così diffusa, almeno per il momento. «Mi sembra un’operazione di bassa leva e sinceramente non ci vedo un grosso vantaggio», commenta a Open Francesco Mutti, amministratore delegato dell’omonima azienda, famosa in tutto il mondo per la sua passata di pomodoro. «Non ci interessa – aggiunge Mutti – optare per una speculazione di breve termine volta solo a sopravvivere per qualche mese in più. Meglio attivarsi e agire su un orizzonte strategico, non tattico».

Mutti è il marchio italiano di pomodoro più venduto negli Stati Uniti. Ma il mercato americano, precisa l’amministratore delegato dell’azienda emiliana, «vale circa il 4% delle nostre esportazione. Una percentuale rilevante, certo, ma non determinante». Nel 2018 la passata di pomodoro non rientrava tra i prodotti colpiti dai dazi di Trump e la speranza è che anche questa volta si riesca a evitare il peggio. «Il nostro prodotto è pensato solo per chi cerca l’eccellenza. Non c’è alcuna competizione sul prezzo, perché i produttori americani sono molto più competitivi di quelli italiani», spiega ancora Francesco Mutti. L’introduzione di dazi, dunque, non servirebbe per rispondere a problemi di distorsione del mercato, ma solo a mettere in atto «una visione politica che pensa solo a mettere barriere e ridurre il commercio internazionale». E se alla fine Trump optasse davvero per nuovi dazi? «Ci adatteremo», assicura Mutti.

A dubitare della strategia di chi aumenta le spedizioni verso gli Stati Uniti per prevenire possibili tariffe doganali è anche Rodolfi Mansueto, storica azienda italiana del pomodoro. «La nostra strategia, che rifugge dalle speculazioni legate all’aumento delle esportazioni prima dell’entrata in vigore dei nuovi dazi, si basa e sviluppa su un’ottica di lungo periodo», spiega Riccardo Conforti, export manager dell’impresa emiliana. «Se l’aumento delle tariffe dovesse raggiungere il 20%, sicuramente si tratterebbe di un colpo al settore agroalimentare e, per quanto ci riguarda, alle nostre esportazioni negli Usa, che oggi rappresentano il 10% del nostro fatturato», aggiunge il manager di Rodolfi. Ma a preoccupare non sono solo i possibili dazi. L’altro fronte aperto riguarda lo sciopero dei porti della East Coast negli Stati Uniti, sospeso fino a gennaio 2025. Se con l’inizio del nuovo anno dovesse riprendere lo stato di agitazione, a risentirne potrebbero essere anche le spedizioni delle aziende italiane.

Credits: Dreamstime/Sarawut Chainawarat

Il pressing di Parmigiano Reggiano sul Congresso

Di fronte allo spettro di nuovi dazi americani sui prodotti europei, la soluzione numero uno a cui lavora l’agroalimentare italiano resta lo sforzo diplomatico e di lobbying per cercare di convincere la prossima amministrazione statunitense a desistere. A luglio, per esempio, il consorzio del Parmigiano Reggiano ha aperto un ufficio operativo negli Stati Uniti, forse proprio in vista di un possibile inasprimento delle relazioni commerciali tra Washington e le capitali europee. «Vogliamo lavorare a stretto contatto con le istituzioni americane per avere una share of voice al Congresso e al governo», spiega Nicola Bertinelli, presidente del consorzio che riunisce 292 caseifici. L’obiettivo, precisa, è «tutelare il Parmigiano Reggiano» e «far capire che a noi interessa crescere nel territorio americano ma non in modo depauperante, bensì fornendo il nostro contributo nell’aumentare il Pil del Paese».

Nel caso di Parmigiano Reggiano, gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato estero, con una quota del 22% sulle esportazioni totali. In termini assoluti, si tratta di 14mila tonnellate di formaggio spedite ogni anno. «Imporre dazi su un prodotto come il nostro aumenterebbe solo il prezzo per i consumatori americani, senza proteggere realmente i produttori locali. È una scelta che danneggia tutti», spiega ancora Bertinelli. Come Mutti, infatti, anche Parmigiano Reggiano si rivolge a una fascia alta di consumatori, con un prezzo medio di 20 dollari a libbra, esattamente il doppio dei 10 dollari a libbra del parmesan americano. Secondo il consorzio di caseifici, il mercato americano è quello con il più alto potenziale per i prossimi cinque anni, ma i dazi di Trump rischiano di rovinare i piani del consorzio, che punta ad aumentare le esportazioni verso gli Usa del 3% ogni anno nei prossimi sette anni. «Se i dazi rallentassero i consumi dei cittadini americani, questo target risulterebbe difficilmente raggiungibile», ammette Bertinelli.

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Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano, durante un evento a Parma, 16 ottobre 2024 (ANSA/Paolo Giandotti)

Nessun impatto per Barilla

Tra le altre eccellenze italiane del Parmense c’è poi Barilla, tra i leader mondiali nella produzione di pasta. A differenza delle altre aziende citate finora, l’azienda emiliana fa sapere a Open di non temere alcun impatto dall’eventuale introduzione di nuovi dazi. Da diverso tempo, infatti, Barilla ha iniziato a produrre in loco la pasta destinata al mercato americano. Due gli stabilimenti attivi: uno nello stato di New York e uno in Iowa. L’unico flusso dall’Europa verso gli Stati Uniti riguarda i crispbread del marchio Wasa, simili a dei cracker, che però rappresentano una porzione minima del portafoglio di prodotti del gruppo Barilla.

I timori della filiera del vino

A essere colpiti dai dazi potrebbe essere invece i produttori di vino. Durante la sua prima presidenza, Trump mise un dazio del 25% sulle esportazioni di alcune bevande alcoliche verso gli Stati Uniti, con un danno importante per le aziende italiane. «È stata trovata una moratoria ma scadrà nel 2026. La nostra paura è che la nuova amministrazione possa riprendere questi dazi e rimetterli in essere», spiega Giuseppe D’Avino, presidente del Gruppo Spiriti di Federvini. L’impatto di quei dazi, rivela D’Avino, fu di circa 468 milioni di euro di perdite per il settore. E il rischio è che ora la situazione possa ripetersi. «Gli Stati Uniti sono la seconda destinazione del nostro export dopo l’Europa unita. Come singolo Paese, sono senz’altro il più importante», spiega ancora D’Avino.

Per evitare di finire trascinati in una nuova guerra commerciale, l’associazione di categoria si è già attivata a livello istituzionale per aumentare il pressing diplomatico sulla Casa Bianca. «Le nostre preoccupazioni trovano sponda nel governo italiano, ma è a Bruxelles che si gioca la vera partita», precisa D’Avino. La speranza è che la forza politica di cui gode in questo momento Giorgia Meloni – specialmente di fronte al caos politico di Francia e Germania – possa contribuire a scongiurare l’introduzione di nuovi dazi. «Sarà importante il rapporto che avranno i singoli Paesi con l’amministrazione Trump», conferma D’Avino. Anche perché, per il momento, «non esistono mercati alternativi in grado di compensare ciò che vendiamo negli Stati Uniti».

Credits: Dreamstime/Ermess

L’importanza degli Usa per le aziende italiane

Per molte aziende italiane le esportazioni verso gli Stati Uniti garantiscono una quota significativa del fatturato ed è per questo che l’ipotesi di eventuali dazi spaventa così tanto. I dati di Sace – società controllata dal ministero dell’Economia che aiuta le imprese italiane a investire all’estero – dicono che nel 2023 l’Italia ha esportato negli Usa beni per 67,3 miliardi e ne ha importati per 25,2 miliardi. A livello generale, gli Stati Uniti rappresentano il secondo partner commerciale italiano dopo la Germania. Se si considera solo l’agroalimentare, i dati a cui bisogna guardare sono quelli di Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare. Nei primi sei mesi del 2024, l’export di vini e alimenti italiani all’estero ha toccato i 34 miliardi di euro e dovrebbe raggiungere quota 70 miliardi a fine anno. A trainare questo dato sono proprio gli Stati Uniti (+17%), che si sono confermati terza principale destinazione dell’agroalimentare italiano dopo Germania e Francia.

Come andò con i dazi della prima presidenza Trump

L’introduzione di nuovi dazi da parte dell’amministrazione Trump, come detto, non sarebbe uno scenario del tutto inedito. Durante i suoi primi quattro anni alla Casa Bianca, il presidente repubblicano ha applicato tariffe doganali tra il 15 e il 40 per cento. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, non si trattò di una decisione unilaterale, ma di una misura approvata dal Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Quei dazi furono approvati infatti in seguito a un lungo contenzioso legale tra Boeing e Aribus, i due principali produttori di aerei, che si accusavano a vicenda di violare le regole della libera concorrenza. Dopo che il Wto stabilì che Airbus aveva ricevuto aiuti europei illeciti, Trump ne approfittò per approvare nuovi dazi ai paesi europei.

L’Italia, allora guidata dal governo di Giuseppe Conte, avviò un importante sforzo diplomatico per cercare di evitare le nuove tariffe doganali. Alla fine, qualche successo arrivò, per esempio scongiurando un aumento dei dazi sul parmigiano reggiano dal 25 al 40 per cento. Le esportazioni delle aziende italiane verso gli Stati Uniti continuarono ad aumentare anno dopo anno, ma a ritmi decisamente più contenuti rispetto a quelli dell’era pre-Trump. Secondo diversi istituti, la politica protezionistica promessa dal tycoon nell’ultima campagna elettorale potrebbe innescare ritorsioni da parte di altre grandi economie e dimezzare i volumi del commercio internazionale. Le aziende italiane, oggi come otto anni fa, restano alla finestra e si preparano al peggio. Sperando che il peggio non arrivi.

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Donald Trump e Giuseppe Conte a un vertice della Nato, 4 dicembre 2019 (ANSA/Filippo Attili)

In copertina: Donald Trump durante una buffet a base di fast food alla Casa Bianca, 14 gennaio 2019 (EPA/Allison Robbert)

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