Meloni guiderà l’Europa nell’era Trump? Mario Draghi non ci crede: «Francia e Germania ora deboli, ma non vedo altri leader»
«La leadership franco-tedesca s’è indebolita, ma non vedo altre leadership in grado di guidare l’Europa, almeno per il momento». Lo ha detto Mario Draghi intervenendo all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano (Ispi), che lo ha insignito del suo premio annuale dedicato a «personalità che hanno contribuito a rafforzare l’immagine dell’Italia nel mondo». Mai menzionata Giorgia Meloni, che Draghi dunque non enumera come leader in grado di “prendere per mano” l’Europa orfana dei suoi due pesi massimi, con Emmanuel Macron alle prese con una difficilissima crisi politica interna e Olaf Scholz al passo d’addio. Più probabile, secondo l’ex governatore della Bce, che a colmare quel vuoto di leadership – o per lo meno di azione – sia nel breve periodo Ursula von der Leyen. «La Commissione in questo contesto avrà molto più peso per la guida dell’Europa», ragiona Draghi rispondendo alle domanda di Sarah Varetto. Fermo restando, comunque, che già tra pochi mesi più di qualcosa potrebbe cambiare a Berlino: «Vediamo il risultato delle elezioni tedesche, poi ne riparliamo». Riferimento implicito alla corsa elettorale tedesca, che vede al momento la Cdu strafavorita per tornare al governo del Paese con una solida maggioranza. Draghi d’altronde non fa mistero di considerare le ricette sovraniste una iattura, per il semplice fatto che chiunque vada al governo oggi in Europa «si deve porre di fronte alla necessità di percorrere una strada dove solo l’integrazione di alcune aree permette quel salto di qualità che il quadro richiede per sopravvivere dal punto di vista economico». Di fronte all’enormità di questa sfida «esistenziale», l’ex premier riassume volentieri la sua ricetta per la leadership: «La gente vuole da un leader competenza e visione, saper immaginare un futuro ma anche portare con sé il Paese». E nessuno sa meglio di lui come lo deve fare in primis «chi passa dalle elezioni e riceve la legittimazione dai cittadini a fare delle riforme. Questo dà forza ma anche scopo al suo mandato».
Gli investimenti per l’Europa e le riforme urgenti «a costo zero»
Tutta la conversazione organizzata in occasione del Premio Ispi 2024 ruota attorno ai timori per il futuro dell’Europa nell’era del ritorno di Donald Trump, oltre che di un pianeta sull’orlo della guerra mondiale, a pezzi o meno. Draghi s’è portato avanti col lavoro: la sua ricetta per “salvare l’Europa” dal declino e dai colpi delle altre potenze mondiali l’ha elaborata e poi consegnata ai leader Ue già a settembre. Sta in quel rapporto sul futuro della competitività dell’Unione che predica interventi urgenti e investimenti massicci per rilanciare la produttività europea e trasformare la sua economia. Missione impossibile, far saltare fuori quegli 800 miliardi di euro l’anno che il medico Draghi ha “prescritto” per rivitalizzare l’Unione? Sorride sornione, l’ex presidente del Consiglio. «Entro due ore dalla pubblicazione del rapporto c’era già stata la prima reazione di un ministro di un Paese di peso: “Nooo, è impossibile, come faremo”». Non era altri se non l’allora ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner. Ebbene, rivolta la frittata Draghi, ai capi di Stato e di governo Ue che mi hanno invitato al Consiglio europeo di Budapest «ho detto che si tratta di un volume d’investimenti pubblici importante, ma marginale nell’economia del rapporto. Si può partire invece da cinque cose perfino più importanti» e a costo zero o limitato. Draghi tiene a enumerarle una per una: 1) Il mercato unico, che oggi «di fatto non esiste, perché le barriere interne tra Paesi sono da 3 a 9 volte più rilevanti che negli Usa». 2) L’integrazione del mercato dei capitali, coniugato con una sua trasformazione in grado di sostenere l’innovazione: sia fondato non più sul debito, ma sull’equity. 3) Sfoltire una regolamentazione pletorica, specialmente nel settore della concorrenza, dove serve «guardare di più alle fusioni che promettono innovazione». 4) Aggredire la frammentazione: della regolamentazione, ma anche dei finanziamenti – ad esempio nel settore della ricerca. 5) Ripensare i finanziamenti pubblici.
La strada del debito comune e l’ottimismo come metodo d’azione
Draghi vede bene i pericoli esistenziali che corre l’Europa, ma proprio per questo è fiducioso che la portata delle sfide la condurranno a trovare la soluzione. Anche sulla questione politicamente sensibile dell’indebitamento comune. «La convenienza di farlo è fuori discussione. Si pensi al valore di investimenti comuni nel mercato elettrico o nel settore della difesa. La dimensione degli investimenti necessari va ben oltre il bilancio degli Stati. Quando una cosa è giusta, ragionevole e sensata non tutti si mettono in fila per farla. Ma si vede che c’è un movimento “millimetrico”, come diceva Merkel, verso la razionalità. E lo si vede dalla discussione che si sta svolgendo in questo momento in Germania», nota soddisfatto Draghi. Che la mette giù chiarissima: «La sfida che viene descritta nel rapporto è una sfida esistenziale. Se vinta, permette all’Europa di continuare ad evolversi in conformità ai suoi valori, di pace, libertà e indipendenza, e di crescere. È una sfida che dobbiamo vincere, perché al centro ci sono i nostri valori». A 77 anni compiuti, l’ex premier mostra la lucidità e la visione di un uomo nel pieno delle forze. Sarah Varetto gli chiede in conclusione come faccia a essere così ottimista in un’era in cui «c’è non uno, ma una varietà di cigni neri». Draghi beve un ultimo sorso d’acqua, riflette per un attimo, poi risponde determinato: «Quando si fanno le cose bisogna essere ottimisti. Se si è pessimisti si sta a casa». La platea, in cui siedono anche pezzi rilevanti del gotha politico, finanziario e industriale italiano – da Mario Monti a Marco Tronchetti Provera, da Paolo Scaroni a Marta Cartabia ed Emma Marcegaglia – annuisce e gli regala una standing ovation.