Bande jihadiste, mercenari di Putin, migranti: perché il capo dell’esercito italiano teme che la prossima guerra sarà in Africa
L’esercito italiano deve sì reagire a quanto accade in Ucraina, aumentando gli investimenti in difesa e aggiornando le sue tecniche. Ma deve anche agire in modo “proattivo”, in una regione in particolare: «Prepararsi all’Africa. Penso che sarà un problema grosso». Lo ha detto il capo di Stato maggiore Carmine Masiello in un’intervista a Repubblica che ha fatto discutere e stupito molti. Cosa intendeva dire? Perché quando pensa ai prossimi fronti di guerra il capo dell’esercito italiano pensa all’Africa? E in cosa potrebbe consistere il «problema grosso»? Nel colloquio con Gianluca Di Feo, Masiello dice e non dice. Evoca senza chiarire. «Come dice il ministro Crosetto, dobbiamo occuparci di Africa perché sicuramente l’Africa si occuperà di noi». Ancora: «Dobbiamo concentrarci su questo continente, che è quello del futuro ma su cui c’è l’attenzione di tanti». E più nello specifico, «la sfera del nostro interesse nazionale, il cosiddetto Mediterraneo allargato, si spinge fino al Sahel». Sin qui i propositi legati più alla politica estera, di sviluppo e alla diplomazia. Ma in cosa consisterebbe la componente militare tale da mettere «sull’attenti» il capo dell’esercito? Un indizio di risposta, in realtà, Masiello l’ha dato in un discorso pronunciato quasi due mesi fa.
Prepararsi alla guerra
Intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola Ufficiali di Torino, lo scorso 22 ottobre, Masiello ha tenuto un discorso “programmatico” presto diventato virale tra gli addetti e/o nerd di questioni di Difesa così come sulle chat dei militari. «L’esercito è fatto per prepararsi alla guerra. Fino a qualche tempo fa era una parola che non potevamo utilizzare. Oggi la realtà ci ha chiamato a confrontarci con la guerra. Dobbiamo farci trovare pronti», diceva Masiello provando a dare la sua sveglia alla politica e alla diplomazia, ma pure alle stesse Forze armate, in cui evocava anche l’idea di «ritornare a chiamare il corso di Stato Maggiore con il nome che aveva una volta: scuola di guerra». Ebbene, a proposito di guerra, anche in quella occasione il capo dell’esercito arrivava in fretta al discorso Africa. «Si reagisce per l’Ucraina, ma si è proattivi per l’Africa, che sarà il problema dei prossimi 20-30 anni». Proattivi, che significa? Ancora Masiello: «La tecnologia rappresenta la proattività, la trasformazione continua ed è la nostra arma per sopravvivere vittoriosi sul campo di battaglia. Oggi vince chi è più tecnologico. Tutto il resto sono chiacchiere». Anche perché, sosteneva il capo di Stato maggiore, il conflitto in Ucraina ha mostrato chiaramente qual è oggi lo scenario: «un mix di guerra antica – le trincee che avevamo completamente dimenticato, i campi minati, i rotoli di filo spinato, il fango – e di futuro – la guerra cibernetica, la guerra spaziale: ci sono i droni e tutte le loro varianti, c’è la disinformazione, la guerra delle menti. La mente nostra, dei militari e dei civili, è diventata ormai parte del campo di battaglia».
La mano di Putin in Africa
Masiello non lo dice mai esplicitamente, ma lascia intendere qual è il nemico numero 1 dell’Italia e dell’Europa anche in Africa. Il solito: Vladimir Putin. E non è un caso. È almeno a partire dal 2018 che il Cremlino ha deciso di spedire i mercenari del famigerato Gruppo Wagner sull’altra sponda del Mediterraneo per avanzare la propria agenda: in primis in Libia, dove ha puntellato il potere di Khalifa Haftar, capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) sino a costituire un quasi-protettorato. Ma ben presto anche più a sud, là dove serviva andare in soccorso di questo o quell’altro malandato esercito o dittatore: dal Mali al Niger, dalla Repubblica Centrafricana al Burkina Faso. Le necessità dei signori locali che hanno richiesto i servigi dei russi sotto la guida dell’ormai defunto Yevgeny Prigozhin erano spesse simili: combattere milizie jihadiste o altre bande criminali, puntellare il proprio potere, e perché no con l’occasione liberarsi una volta per tutte della presenza economica e militare dell’odiata ex potenza coloniale, la Francia. Missione quasi sempre riuscita, anche perché l’aiuto russo è sempre arrivato rapido, efficace e parecchio disinvolto: nessuna richiesta di rispetto di diritti umani o strane diavolerie occidentali in cambio. «Chiami Mosca e quando hai messo giù il telefono, stanno già caricando la roba su un aereo», ha sintetizzato di recente un alto dirigente di uno dei Paesi coinvolti.
Prove generali per la guerra di domani
Cosa ne ha tratto la Russia in cambio? Risorse cruciali. Denaro contante per le forniture di armi e miliziani sì, ma non solo. Ancor più importante, l’accesso a risorse naturali strategiche che si trovano in quei Paesi: minerali, e soprattutto oro, bene diventato cruciale per il Paese per reggere il colpo finanziario delle sanzioni imposte da Europa e Stati Uniti. Ma così come in altri teatri di guerra – la Siria, ad esempio, ora tornata sotto i riflettori dopo anni di oblio – le scorribande nel Sahel sono servite al Cremlino pure per addestrare i suoi uomini/miliziani. A cosa? Alla guerra del domani che toglie il sonno a Masiello, appunto: sporca, e mista. Trincee, artiglieria e combattimenti corpo a corpo, alla vecchia maniera. Ma anche droni e altri strumenti elettronici di nuova generazione per colpire a sorpresa. E poi la terza gamba del conflitto, quella su cui la Russia – e Putin stesso – ha una lunga e “gloriosa” storia alle spalle: la disinformazione. Tra il 2021 e il 2023, riassume l’analista Will Brown in un recente articolo per lo European Council on Foreign Relations, Mosca ha messo a segno «una serie di campagne di diplomatiche e disinformazione di grande efficacia» in Africa, che hanno contribuito a detronizzare uno dopo l’altro i presidenti di Mali, Burkina Faso e Niger, a sostituirli con regimi golpisti filo-russi e a sbaragliare la decennale strategia francese nella regione. Capolavoro insomma, dal punto di vista di Putin. Esempio o prova generale per quanto sarebbe poi avvenuto in Ucraina ed Europa, senza scordare il grande laboratorio delle interferenze in Usa.
Energia e migranti: il piano dell’Italia in Africa
Oggi, dopo la resa dei conti tra Putin e Prigozhin (eliminato ad agosto 2023 dopo aver sfidato lo Zar), il Gruppo Wagner non esiste più. Ma i suoi vecchi miliziani ci sono sempre, sotto le insegne di quelli che ora si chiamano Africa Corps. Mantengono una presenza rilevante in tutti i Paesi menzionati, anche se secondo alcuni analisti meno incisiva e via via più contestata. Ed è qui, con ogni probabilità, che s’inserisce la fretta di Masiello di muoversi in maniera “proattiva” nel Sahel. I competitor ci sono e sono agguerriti, ma lo spazio per guadagnare influenza politica ed economica c’è. Intendimenti in linea, al netto dell’accento sulla componente militare, con il più rilevante progetto di politica estera sin qui partorito dal governo Meloni: il piano Mattei. Una grande iniziativa a guida dell’Italia – per lo meno nelle intenzioni dell’esecutivo e della diplomazia – per tornare a far crescere i partenariati con i Paesi africani, sulla base di un’agenda di «mutuo sviluppo». Il do ut des che propone l’Italia, in concreto, è piuttosto chiaro: «Meno migranti, più energia», come riassumeva già nel 2023 Giovanni Carbone per l’Ispi. La stessa Giorgia Meloni lo ha ribadito di recente in un discorso programmatico di politica estera, quello tenuto alla conferenza Med a Roma a fine novembre: l’Italia si impegna e si impegnerà ad aumentare gli investimenti nei Paesi di provenienza e transito dei migranti, un po’ perché ha “sete” di quell’energia che dalla Russia di Putin (appunto) non vuole più e si propone dunque di fare da ponte (hub) tra Africa ed Europa, un po’ perché vuole assicurarsi che sia riconosciuto agli africani il «diritto di non migrare». Versione politicamente corretta del vecchio «aiutiamoli a casa loro».
La paura del jihadismo e la sfida demografica
In una fine 2024 in cui riemergono i vecchi spettri del jihadismo che negli scorsi due decenni ha terrorizzato l’Occidente (Al Qaeda, Isis), infine, un pezzo del ragionamento angoscioso di Masiello va pure alle varie milizie islamiste che continuano a imperversare in buona parte del Sahel. Il più temuto è con ogni probabilità lo Jamaat Nusrat al Islam wa al Muslimin, il “Fronte d’Appoggio all’Islam” salafita basato in Mali ma che colpisce volentieri in buona parte dell’Africa occidentale. Negli ultimi mesi, a quanto è emerso, ha fatto strage di soldati regolari e/o di miliziani russi sul confine tra Mali e Algeria, e poi di nuovo in una base militare e un aeroporto non lontano da Bamako. E l’ideologia jihadista è nota per la sua resilienza a rinascere sotto nuove forme e gruppi anche quando uno di essi viene apparentemente decapitato o depotenziato. Possibile infine, vista la citazione del suo referente politico Guido Crosetto, che il capo dell’esercito italiano sia in fondo anche preoccupato degli esiti imprevedibili di quella grande sfida demografica impari che si gioca in questo secolo tra Europa ed Africa: il continente più giovane e in crescita che preme sotto a quello più vecchio e in contrazione. Migrazione o sviluppo, guerra o pace: tutto dipende dalla somma delle scelte che vengono fatte ora. «Proattivamente», secondo Masiello.
In copertina: Un generale irlandese impegnato in attività di formazione dei soldati del Mali nell’ambito di una missione Ue – Koulikoro, 1° maggio 2013 (Epa/Cpl Lu Scott)