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La crisi dell’auto travolge anche i produttori Ue di batterie. Dalla fine di Northvolt alle gigafactory dimezzate di Stellantis, cosa succede in Europa

15 Dicembre 2024 - 06:58 Gianluca Brambilla
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La Commissione europea starebbe pensando a una soluzione per colmare il divario tra le aziende europee e i rivali cinesi nella produzione di batterie, obbligando le aziende cinesi ad aprire fabbriche in Europa e condividere il loro know-how in cambio dell’accesso ai sussidi comunitari

Senza batterie non esiste transizione verso le auto elettriche e ad oggi l’Unione europea di batterie proprio non ne riesce a produrre. Il settore, che è chiamato a svolgere un ruolo centrale nell’ambizioso progetto del Green Deal, naviga in acque piuttosto agitate. Northvolt, la startup svedese creata con la promessa di emancipare l’Europa dalle importazioni cinesi, ha dichiarato bancarotta. Mentre alcuni grandi progetti per la costruzione di nuove gigafactory – ossia di impianti destinati alla produzione di batterie per auto elettriche – non è sicuro che saranno davvero portati a termine. Ne è un esempio la lunga trafila che da mesi interessa la fabbrica di Termoli, in Abruzzo, dove Acc – la joint venture tra Stellantis, Mercedes-Benz e TotalEnergies – ha promesso di costruire una gigafactory che non si sa se vedrà mai la luce.

Il dominio cinese sulle batterie e la rincorsa degli Usa

Secondo l’ultimo report dell’Agenzia internazionale dell’energia, pubblicato ad aprile 2024, la Cina controlla l’83% della produzione mondiale di batterie. Seguono Europa e Stati Uniti con il 13%, mentre Corea del Sud e Giappone si dividono il restante 4%. La posizione di leadership incontrastata di Pechino si deve anche al controllo sulle miniere di litio, terre rare e di molti altri critical raw materials, ossia di tutte quelle materie prime considerate fondamentali per la produzione di tecnologie legate alla transizione ecologica. L’elettrificazione dei trasporti e dei consumi – imposti dalla necessità di ridurre al più presto le emissioni e frenare l’avanzata dei cambiamenti climatici – ha spinto sia gli Stati Uniti sia l’Europa a dotarsi di appositi piani per lo sviluppo di una filiera delle batterie. A fare la differenza, sono le cifre stanziate. L’Inflation Reduction Act di Joe Biden, approvato nel 2022, ha stimolato investimenti nelle tecnologie pulite per oltre mille miliardi di dollari. Di questi, la Columbia University stima che oltre 70 miliardi sono andati a finanziare proprio la filiera delle batterie. Il risultato è che, entro la fine del decennio, gli Stati Uniti raggiungeranno con ogni probabilità una capacità produttiva di batterie pari o superiore a 1 terawattora.

Le ambizioni di un’Europa senza soldi

Le cose procedono a un ritmo decisamente più lento in Europa, nonostante il boom di progetti innescato dal Next Generation EU, il maxi-piano di investimenti varato da Bruxelles all’indomani della pandemia da Covid-19 per aiutare l’economia europea a ripartire. Di progetti ne sono stati presentati parecchi. Ma la vera differenza rispetto a quanto avvenuto negli Stati Uniti sta soprattutto nelle cifre stanziate per sussidi e prestiti. Se il piano di Biden ha riservato alla filiera delle batterie circa 70 miliardi di dollari, le aziende europee si sono dovute accontentare di molti meno fondi. Secondo un report della Corte dei Conti Ue, tra il 2014 e il 2020 Bruxelles ha erogato sovvenzioni al settore delle batterie per un totale di 1,2 miliardi, a cui vanno aggiunti altri 500 milioni di prestiti garantiti. Più di recente, il «Fondo innovazione» ha aggiunto un tesoretto di altri 3 miliardi, ma anche sommando tutti questi strumenti non si arriva neanche lontanamente alla cifra stanziata dal governo americano.

Il rischio, avvertono i giudici europei della Corte dei Conti, è che non tutti i progetti vengano effettivamente portati a termine. «La capacità di produzione degli elementi di batteria agli ioni di litio nell’Ue si sta sviluppando rapidamente e potrebbe passare da 44 gigawattora nel 2020 a circa 1200 entro il 2030», si legge nel report, pubblicato nel 2023. «Tuttavia – continuano i giudici – l’effettivo aumento della capacità non è garantito e potrebbe essere messo a rischio da fattori geopolitici ed economici». A meno di un anno di distanza dalla pubblicazione del report, queste parole si sono rivelate profetiche. La crisi che ha travolto il settore dell’automotive ha finito infatti per contagiare inevitabilmente anche i produttori di batterie, costretti a fare i conti con una domanda ben al di sotto delle previsioni.

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La fabbrica di batterie Northvolt a Skellefteå, in Svezia

Il fallimento di Northvolt

Il caso più esemplare della crisi europea delle batterie riguarda Northvolt, una startup svedese fondata nel 2015 da due ex dirigenti della Tesla: lo svedese Peter Carlsson e l’italiano Paolo Cerruti. L’azienda ha conquistato la fiducia e l’interesse di aziende e istituzioni ed è riuscita a raccogliere nel giro di pochi anni oltre 13 miliardi di finanziamenti. Dietro Northvolt – che ha ricevuto anche generosi prestiti e sussidi dalla Banca europea per gli investimenti e dal governo tedesco – ci sono colossi come Goldman Sachs, Blackrock e Volkswagen. Gli ingredienti per farcela, insomma, c’erano tutti: due dirigenti rispettati al timone dell’azienda, un contesto normativo favorevole e soprattutto tanti soldi da poter investire. Eppure, Northvolt non ce l’ha fatta. Dopo aver accumulato ordini inevasi e debiti per svariati milioni di euro, a novembre 2024 la startup svedese ha depositato istanza di fallimento negli Stati Uniti e annunciato migliaia di esuberi nelle fabbriche europee.

Ma perché Northvolt è fallita? E soprattutto: se non ce l’ha fatta l’azienda con più soldi e più sostegno della politica, che ne sarà di tutte le altre imprese che si sono buttate nel settore delle batterie? Le risposte alla prima domanda sono diverse. Innanzitutto, perché la forte spinta dell’Europa verso la mobilità elettrica ha fatto impennare la domanda di batterie a ritmi che le aziende ancora non erano in grado di sostenere. Non è un caso infatti che le prime crepe nel modello Northvolt siano emerse quando lo stabilimento di Skellefteå, in Svezia, ha faticato a raggiungere gli obiettivi di produzione, perdendo alcuni importanti ordini e non riuscendo a ottenere nuovi finanziamenti. C’è poi un’altra ragione che ha a che fare con la concorrenza cinese. Rispetto alle aziende europee, i marchi asiatici delle batterie possono contare su due vantaggi: da un lato l’esperienza e il know how accumulati negli ultimi anni (quando in Europa ancora non si producevano batterie per auto elettriche) e dall’altro il già citato controllo di Pechino su buona parte delle materie prime necessarie per produrre batterie (a partire dal litio). A tutti questi elementi si è aggiunto infine il rallentamento delle vendite di auto elettriche, che ha contribuito a creare ancora più incertezza per tutti gli operatori del settore in Europa.

I piani (dimezzati) di Stellantis sulle batterie

La bancarotta di Northvolt è senz’altro un brutto colpo per le ambizioni europee in materia di batterie, ma esistono altre realtà che stanno investendo nel settore. È il caso di Verkor, una partecipata di Renault che ha ricevuto 1,3 miliardi di euro di finanziamenti per costruire una gigafactory a Dunkerque. Oppure di Automotive Cells Company (Acc), la joint venture tra Stellantis, Mercedes-Benz e TotalEnergies. Nel 2023, Acc ha aperto la sua prima fabbrica di batterie a Billy-Berclau, in Francia, in grado di produrre 56mila celle al giorno. Nelle scorse settimane, la partecipata di Stellantis e Mercedes ha annunciato poi che costruirà un impianto europeo di batterie al litio ferro fosfato su larga scala a Saragozza, in Spagna, insieme alla cinese Catl. Ci sono però altri due progetti annunciati da Acc che finora non hanno visto la luce. Si tratta della gigafactory di Kaiserslautern, in Germania, e quella di Termoli, in Abruzzo. Entrambi i progetti sono stati messi in pausa e non è chiaro se verranno mai davvero portati a termine. La decisione definitiva, ha annunciato Stellantis, verrà presa nella prima metà del 2025.

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La gigafactory di Acc a Billy-Berclau, in Francia (ANSA)

Gli errori di Bruxelles

Secondo Simone Tagliapietra, economista del think tank europeo Bruegel, il fallimento di Northvolt «fa parte dei rischi naturali dell’innovazione» e non rappresenta «un verdetto sulla fattibilità degli obiettivi globali di tecnologia pulita dell’Europa». Se c’è una lezione che si può trarre da quanto accaduto finora, spiega l’economista di Bruegel in un’analisi pubblicata da Bruegel, è che l’Unione europea «dovrebbe promuovere un ecosistema diversificato di iniziative imprenditoriali, anziché affidarsi» ai cosiddetti “campioni”. È diverso il punto di vista di Massimiliano Salini, eurodeputato di Forza Italia in carica dal 2014, che identifica nelle politiche promosse negli ultimi anni dall’Unione europea il vero motivo della crisi del settore delle batterie e di tutto l’automotive. «Ci siamo affrettati a sostituire il motore a combustione interna, cercando di bruciare le tappe», sostiene Salini. L’eurodeputato di Forza Italia chiarisce che il problema non è l’auto elettrica in sé, ma l’approccio scelto da Bruxelles. «L’innovazione ha bisogno di contesti aperti in cui si può sbagliare, non si crea per decreto», critica Salini. «Nel caso dell’elettrico – fa notare l’eurodeputato di Forza Italia – la catena del valore non ricade mai nel territorio europeo. E questo significa che subiamo in maniera ancora più cruenta i rovesci del mercato».

L’ipotesi del «trasferimento tecnologico» (che non convince tutti)

Secondo il Financial Times, la Commissione europea starebbe pensando a una soluzione per colmare il divario tra le aziende europee e i rivali cinesi nella produzione di batterie. In gergo tecnico si chiama «trasferimento tecnologico». Nella pratica si tratta di obbligare le aziende cinesi ad aprire fabbriche in Europa e condividere il loro know-how in cambio dell’accesso ai sussidi comunitari. Questa soluzione sembra essere condivisa anche da Tagliapietra, che su Bruegel scrive: «Invece di escludere le competenze straniere, l’Europa dovrebbe cercare di costruire partnership strategiche con aziende cinesi e asiatiche, sfruttando la loro conoscenza ed efficienza produttiva, offrendo in cambio l’accesso al mercato. Naturalmente, tali partnership dovrebbero essere disciplinate da un solido quadro normativo per garantire gli interessi di sicurezza europei». Non è convinto invece Massimiliano Salini. «È una soluzione sbagliata e sarebbe una sconfitta per l’Europa. La modalità con la quale i cinesi entrano sul mercato viene definita tecnicamente “dumping predatorio”: entrano a prezzi bassi e, una volta conquistata la fetta di mercato, li alzano», spiega l’eurodeputato azzurro.

Secondo Salini, «i margini di innovazione nel settore delle batterie sono molto ampi» e l’Europa «non deve ritenersi per forza vittima e schiava delle forniture cinesi». Ma piuttosto che guardare a un’intesa con Pechino, l’eurodeputato di Forza Italia suggerisce di rivolgersi all’altro grande attore dello scacchiere geopolitico: gli Stati Uniti. «Quando c’è una crisi industriale – continua Salini – bisogna mettere insieme le forze che rispettano le regole di mercato e reagire insieme, prima solo tra Paesi Ue e poi facendo tesoro del legame con gli Usa». A prescindere da quale approccio sceglierà di adottare Ursula von der Leyen nei confronti di Pechino, il rilancio della filiera europea delle batterie non potrà che essere al centro del Clean Industrial Deal, la strategia pensata per rilanciare la competitività delle aziende e aiutarle a ridurre le emissioni. Il piano dovrebbe essere presentato entro febbraio 2025 e guiderà le politiche industriali di Bruxelles almeno per i prossimi cinque anni. Una roadmap più che mai necessaria per non rischiare di ritrovarsi con le batterie scariche nel bel mezzo della transizione ecologica.

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Ursula von der Leyen speaks durante un summit Ue-Cina nel 2022 (EPA/Olivier Hoslet)
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