Mondo Marcio: «Umili, grati e attenti: ecco cosa m’ha insegnato il rap» – L’intervista
Venerdì 13 dicembre è uscito Mondo Marcio, la ristampa dell’album d’esordio di Mondo Marcio, rapper classe 1986, uno dei più importanti della storia della scena italiana, uno di quelli che ha scavato un solco dove poi altri hanno edificato un successo clamoroso. Nel 2004 Gian Marco Marcello, così all’anagrafe Mondo Marcio, poco più che diciassettenne, faceva la sua entrata ufficiale nella scena rap nazionale con il suo primo album ufficiale, un progetto seminale che ha sancito l’ingresso ufficiale del rap all’interno di un circuito in cui, in quegli anni, il genere faticava ad avere accesso. Dimostrando che il rap americano poteva avere una sua “traduzione” italiana, creando una case history che avrebbe aperto la strada a moltissimi altri artisti negli anni a seguire. Il giovanissimo artista, primo rapper in Italia ad avere firmato con una major, esordiva con un disco che trasportava l’attitudine d’oltreoceano all’interno dell’immaginario di un ragazzo milanese che cercava di esorcizzare il proprio disagio. L’artista è atteso per due imperdibili appuntamenti al Gate di Milano, oggi, domenica 15 (già sold out), e lunedì 16 dicembre.
L’album suona nuovissimo, nessuno direbbe che è arrivato a compiere vent’anni…
«Credo che, nel bene e nel male, sia un album molto attuale. Devo essere onesto, non sono solito riascoltare la mia musica, specialmente dopo che ci ho lavorato tanto, quindi figurati il mio primo disco… Però ho ripassato i pezzi perché li devo suonare live Milano e ho pensato che il contenuto è veramente attuale. “Marci a occidente sollevano quelle armi in cielo/ marci a oriente sollevano quelle armi in cielo”, non è cambiato molto dal 2004. Nel 2024 la gente continua a farsi la guerra, la nuova generazione continua a non essere ascoltata. Tutta questa seconda generazione, tutti i Baby Gang, i Simba La Rue….non sono per niente lontani dal Mondo Marcio del 2004. “Portami via da qua, non siamo vivi qua / siamo cattivi perché siamo in cattività”. Ai tempi parlavo delle stesse cose di cui parlano loro adesso, sono cambiate un po’ le basi, sono cambiati un po’ i sound, però l’attitudine è la stessa»
Anche nella narrazione di un disagio sociale sembra però che la poetica sia venuta meno e il tutto sia stato condito di una certa volgarità….
«Il linguaggio si è asciugato tantissimo. C’era una tendenza, almeno da parte mia, ma anche di artisti come Fabri Fibra, ad andare quasi verso la prosa. Poi chiaramente i testi rap parlano di roba comunque forte. Però sì, c’era una poetica che si è persa completamente. Però io penso che la responsabilità non sia mai degli artisti, ma di noi come collettivo umano. Abbiamo scelto la rapidità e la comodità al posto della qualità fondamentalmente. Questo ce l’abbiamo nelle cose che mangiamo, nei mobili che ci mettiamo in casa, nelle macchine che guidiamo e nella musica che ascoltiamo. La società capitalistica ti porta lì: alla domanda continua, all’offerta continua e quindi la qualità è scesa tantissimo»
Qual è la prima cosa che ti viene in mente pensando a quel disco?
«Tanto disagio, tanta incazzatura, tanta difficoltà, tanta mancanza di soldi, tanta fame, tantissima fame. Avevo tutto da conquistare e niente di garantito. Ero entusiasta di fare la musica che facevo e fondamentalmente lo sono ancora, però c’era tanta mancanza. Vivevo tanto nella mancanza, ero cresciuto nella mancanza di una famiglia, nella mancanza di un gruppo. Il mio primo gruppo vero, inteso come tribù sociale, l’ho trovato quando ho iniziato a fare le gare di freestyle. Con la separazione dei miei sono andato a vivere fuori Milano e sono stato separato dal mio gruppo di amici della scuola. Quindi mi mancavano gli amici e mi mancavano i soldi, perché comunque mia mamma era in difficoltà ai tempi… tTnta mancanza è stata compensata in maniera positiva fortunatamente, da una fame sana, da un’incazzatura sana, la voglia di eccellere con la musica».
Cosa hai imparato in questi vent’anni di rap?
«Che bisogna essere umili, che bisogna essere grati, che bisogna essere attenti e che bisogna vivere nel presente, fare tesoro di ogni momento e non dare niente per scontato»
Tu vent’anni fa ti saresti mai aspettato che il rap potesse diventare questo?
«Sarò onesto: stupidamente e in maniera molto naif, si. Ma non è che ci avevo visto più lungo degli altri, semplicemente sono un romantico di natura, sono un sognatore di natura. Ai tempi vivevo in un mondo di favole mie, nella mia odissea personale e quindi ero sicuro che ce l’avrei fatta, ma perché non avevo alternative. Per me veramente l’hip hop avrebbe salvato il mondo, o quantomeno avrebbe salvato me. Quindi ci contavo come uno che c’ha l’ultima fiche e punta sul fatto che esce il numero su cui ha puntato, capito?»
Tu sei stato il primo ad entrare nel mondo delle major come artista singolo, cosa voleva dire ai tempi?
«C’erano pro e contro. Mi sono preso tante critiche perché ai tempi c’era ancora il gatekeeping dei centri sociali: se volevi fare qualcosa di buono con il rap eri un po’ un venduto. Si associava ancora il rap a quello che era negli anni Ottanta: la protesta sociale, il riscatto sociale, che però non era una cosa italiana e sicuramente non era una cosa da bianchi, ma da neri, delle comunità afroamericane che usavano il rap come usavano il basket o lo spaccio: per uscire da un contesto di estrema povertà, quindi lì aveva senso parlare di riscatto sociale. Ai tempi si era importata anche questa cosa che se non eri un poveraccio non potevi fare rap. Quindi, essendo stato io – dopo i Sottotono, dopo gli Articolo 31 – a sfondare la porta, chiaramente mi sono beccato tutte le frecce. Ho preso delle critiche, però c’erano anche dei lati positivi, per esempio: essendo tutto nuovo, le multinazionali entravano un po’ meno a gamba tesa sui progetti: il discografico faceva il discografico e l’artista faceva l’artista»
Cioè?
«Il discografico ti diceva: “Guarda, questo è il budget che abbiamo, punto su di te, scommetto su di te”, e tu facevi l’artista. Poi col tempo i discografici hanno iniziato a voler fare gli artisti, e quindi si è mischiato tutto tanto. Oggi c’è molta confusione, ai tempi c’era un pochino più libertà dal punto di vista creativo, ti lasciavano osare un pochino di più. Oggi è tutto molto macchinoso e molto politico»
Anche nei confronti del Festival di Sanremo una volta c’era molto snobismo da parte dei rapper, se ci andavi passavi quasi per sfigato. E oggi ci ritroviamo un cast che per metà è formato da persone vicine al rap…
«Sì, adesso quasi fa strano se non ci vai a Sanremo. Ma penso che sia una cosa positiva, voglio dire: l’Italia è un Paese meraviglioso ma ha sempre avuto un pochino il limite di arrivare dopo. Siamo sempre stati un pochino lenti a sposare i cambiamenti. Ma finalmente anche a Sanremo è arrivato un genere che è dagli anni 90 che fa dei numeri incredibili»
Quindi tu ci andresti senza nessun problema?
«Col pezzo giusto sì, è un palco comunque molto importante. Non mi vorrei mettere a tavolino con i miei produttori e dire “ok, facciamo il pezzo per Sanremo”. Per me una cosa è bella se esce genuinamente, capito? L’ho visto nella mia carriera: i miei pezzi che hanno funzionato di più non li ho fatti nell’ottica “facciamo una hit”. Chiaro, cerchi sempre di dare il meglio che puoi, però sono usciti molto genuinamente, Dentro alla scatola l’ho scritta in venti minuti»
Ma come mai secondo te il rap dei liricisti, i cosiddetti conscious, non riesce a guidare il movimento rap italiano?
«Ci sono dei casi in cui si riesce a bilanciare un certo tipo di qualità artistica con un certo tipo di commerciabilità. Andiamo sempre di più verso la direzione della produzione veloce e immediata. Non è un caso che i meme siano diventati la forma di comunicazione numero uno della cultura globale. Musk ha detto che chi controlla i meme controlla la cultura e non c’è niente di più vero, perché è una forma di comunicazione immediata, condivisibile: ci metti due secondi a leggere un meme e ti dà una gratificazione istantanea. Noi, come comunità collettiva, andiamo nella direzione della rapidità, comodità, facilità. Deve essere tutto scritto in stampatello, facile da capire, immediato, veloce. E chiaramente, quando vai così veloce, la qualità scende»
Sembra un’occasione sprecata per un genere che potrebbe dare molto di più…
«Una persona magari di 16 anni, che è completamente vergine culturalmente, beve tutto quello che gli viene dato. Probabilmente dopo 5-10 anni dice: “ok, però non mi stai dicendo un cazzo, ho voglia di qualcosa di nuovo”, e se lo va a cercare. Quindi io comunque voglio essere positivo, il cambiamento verso il meglio arriverà. Io penso che comunque la qualità alla fine venga premiata. Non è un caso che nel 2024 siano tornati i Dogo, ci siano state una serie di reunion, sia tornato un certo tipo di rap. Perché? Perché dopo dieci anni di “guarda come flexo”, “guarda il mio orologio”, “guarda la mia collana”, “guarda questo e quest’altro”, la gente vuole che gli dici qualcosa oltre a fargli vedere come sei vestito»
C’è qualche giovane rapper che ti piace particolarmente?
«Penso che tra i più forti ci sia Shiva, sicuramente, ha una penna molto forte. Mi piace molto Heartman, con cui ho fatto un singolo. E poi super, super giovane c’è Tokyo, con la quale ho fatto l’ultimo singolo Kerosene. Su di lei punterei veramente tanto, è una ragazza di cuore, ha molta testa, viene da Corvetto, quindi sa che cosa vuol dire guadagnarsi le cose, è molto in gamba»
Come invecchia un rapper?
«Se devo fare una previsione sul futuro: sicuramente farò qualcosa di coerente con la mia età»