Paolo Cognetti, la depressione, la sindrome bipolare e il Tso: «Le malattie nervose non sono una vergogna da nascondere»
Paolo Cognetti è scrittore e regista. 46 anni, ha vinto il Premio Strega nel 2017 con il romanzo Le otto montagne. Che fa parte di un ciclo che impegna quattro libri e dura dieci anni. Martedì 17 dicembre è stato dimesso dall’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Era stato ricoverato per una «grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali». Oggi parla con Repubblica «per dire pubblicamente che le malattie nervose non devono più essere una vergogna da nascondere». E che «la risalita comincia accettando chi realmente si è». Cognetti ha debuttato alla regia con Fiore mio, un documentario sul Monte Rosa, nel 2024.
La depressione, la sindrome bipolare, le fasi maniacali
Cognetti racconta a Giampaolo Visetti che ha passato le ultime due settimane in psichiatria. Perché In primavera e d’estate, senza un apparente perché, sono stato morso dalla depressione. Nelle scorse settimane invece, sceso dal mio rifugio sul Monte Rosa, ero in una fase bella e creativa. Un giorno mi sono accorto che il mio pensiero e il mio linguaggio acceleravano. Gli amici mi hanno fatto notare che facevo cose strane. Il 4 dicembre il medico ha disposto il Tso: trattamento sanitario obbligatorio». Ha inviato ad amici immagini di sé nudo. E ha regalato un sacco di soldi. Perché «nelle fasi maniacali si può perdere il senso del pudore, o quello del denaro. Si sono allarmati tutti: c’era il timore, per me infondato, che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri».
Il trattamento sanitario obbligatorio
A proposito del trattamento sanitario obbligatorio, dice che le cure le ha subite: «Non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire». E spiega la ragione che ha minato la sua salute mentale: «Per imparare quasi a scrivere ho impiegato quarant’anni. Dopo il successo con Le otto montagne , una storia urgente e necessaria, mi sono chiesto: “E adesso cosa faccio?”. Non ho trovato una risposta convincente. Forse ho temuto che il mio massimo editoriale, con il Premio Strega, fosse stato toccato: la popolarità è spietata e ha un prezzo significativo».
La storia con una donna
Poi aggiunge un altro racconto: «Io so che mi sono innamorato di una donna e che per lei, dopo dodici anni, ho lasciato la mia compagna. Per non abbandonare chi mi è stata vicina a lungo, ho chiuso anche la nuova relazione. Non si deve mai rinunciare all’amore, che non ritorna». Si è tinto i capelli di rosso: «Trovo insopportabili le persone che raccontano un sacco di balle. Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. Io però sono uno scrittore: per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato».
L’obbedienza ai medici
Dice che per uscire dalla situazione nel suo caso «ci vuole ancora tempo. Resto un anarchico, ma in ospedale ai medici devi obbedire. Ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta».
Nei prossimi mesi vuole ritornare in Nepal: «Un sopralluogo, prima di girare un documentario nel Mustang. In marzo terrò un corso di scrittura a Marrakech: una settimana, poi mi fermerò un po’ in Marocco. In ospedale ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo, a tratti divertente, sui temi seri di cui stiamo parlando. Nel tempo che rimane dovrò sistemare la casa, ancora vuota, dove mi sono appena trasferito».
L’umanità della montagna
Dice che ha provato a vivere in alta quota, ma non ci è riuscito: «Mi sono illuso di poterlo fare. L’innamoramento è durato quattro anni: per due ho fatto il cameriere e mi sono sentito parte di una comunità. Poi, dopo che ho cominciato a camminare e a scrivere, l’umanità della montagna mi ha respinto». Ed è sfuggito al confronto con gli altri: «A Milano il progetto politico degli anarchici, di cui pure frequento ancora due circoli, era finito. Dopo dieci anni avevo lasciato una ragazza da vigliacco. Non ho avuto il coraggio di dirle la verità, le ho fatto credere che me ne andavo per ritirarmi in montagna. Mentire rende soli, ma da soli non si vive».
La depressione
A quel punto «è successo che i miei occhi hanno mutato sguardo. Già un anno fa mi sono scoperto depresso. Per me un bosco è tornato solo un bosco, un torrente solo un torrente, perfino un albero non mi ha detto più niente. Nel cuore è sceso il silenzio: la malattia è riuscire a vedere solo il lato apparente della realtà».
E ha paura dell’Europa che va a destra: «Sono arrabbiato e triste, ma non sorpreso. Chi ha lottato per la libertà, per la giustizia e per la democrazia, nel corso di ottant’anni è stato soffocato da un’educata gratitudine di facciata, subito catalogata alla voce memoria. Non sopravvivono quasi più testimoni, ci si affretta a raccontare il presente come passato. La storia in questo modo può essere non solo negata, ma riscritta: ai valori della resistenza viene associato l’odore della muffa, troppa gente non viene più pagata per il suo lavoro. L’Europa oggi fa paura perché ha paura».
Il buddhismo
Spiega poi perché è buddhista: «Ho avuto un’educazione ipercattolica e sono stato focolarino. Dieci anni fa ho scelto una filosofia fondata sulla ricerca dell’armonia tra essere umani, animali e vegetali. Il buddhismo non ha mai promosso guerre sante: pratica la pace e insegna che la sofferenza nasce dal desiderio di ciò che non si possiede. Celebro il Natale in famiglia, senza regali, solo per fare felici i miei genitori». E spiega come vorrebbe sentirci in pace «Vorrei avere cinque o sei amici sinceri, per contare su una mia famiglia vera. E poi essere libero, con un’agenda sempre vuota per i successivi sei mesi. Riuscire a godermi il pianeta, rifugiandomi negli ultimi luoghi rimasti originari. Alla fine anche per me è vivere la cura per riuscire a vivere».