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«Autori fantasma e algoritmi truccati, così Spotify risparmia sui diritti da pagare agli artisti»

25 Dicembre 2024 - 12:45 Antonio Di Noto
spotify artisti fantasma playlist
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Le rivelazioni sono contenute in un libro recentemente pubblicato dalla giornalista Liz Pelly, che da anni si occupa del tema

Diversi dipendenti di Spotify hanno dichiarato che il gigante dello streaming musicale li avrebbe forzati a inserire nelle playlist musica creata da artisti inesistenti per ridurre le riproduzioni dei brani dei musicisti reali e di conseguenza risparmiare sui diritti. Le rivelazioni sono contenute in un libro recentemente pubblicato dalla giornalista Liz Pelly, che da anni si occupa del tema di quelli che vengono definisti «artisti fantasma»: Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist.

Qualche artista vero in un mare di artisti fantasma

Secondo quanto riporta la giornalista, Spotify avrebbe al centro del proprio algoritmo un sistema chiamato Perfect Fit Content (Pfc) elaborato per dare priorità a brani creati da case produttrici legate a Spotify a costi limitati. Così facendo, spiega la giornalista, il servizio di streaming musicale riuscirebbe a ridurre sensibilmente i costi che deve sostenere, dato che non deve pagare i diritti agli artisti più rinomati. Per evitare di attribuirli a case di produzione sconosciute, Spotify creerebbe degli artisti fantasma, dal profilo verificato, che in realtà non esistono.

Gli artisti fantasma sottopagati

Inoltre, sempre secondo quanto riporta Kelly, pare che gli artisti che lavorano per le case produttrici affiliate a Spotify non ricevano un pagamento in base al numero di riproduzioni, ma un forfait una tantum. In base a quanto si legge nell’inchiesta, anticipata da un lungo articolo su Harper’s, spesso ai musicisti che lavorano per queste case produttrici viene detto di allinearsi specificamente al tono della playlist, e di adottare uno stile quanto più anonimo possibile. Questo genere di brani è molto presente in playlist come Deep Focus, Cocktail Jazz e Morning Stretch, ormai composte quasi interamente da artisti sconosciuti. La compagnia svedese ha sempre negato che ciò accada.

Il peso dell’algoritmo

Ciò che è innegabile è che Spotify negli ultimi dieci anni ha modificato il proprio modello di business. Nato nel 2008 per offrire un servizio alternativo alla pirateria dando ampia scelta all’utente, già nel 2012 il gigante dello streaming si era orientato verso un sistema di raccomandazione algoritmica che nel corso del tempo è diventato sempre più prevalente nella selezione di ciò che gli utenti ascoltano. Al giorno d’oggi l’obiettivo della compagnia svedese è accompagnare l’ascoltatore in ogni attività della giornata adattando la selezione al mood del momento, senza che vi sia una scelta mirata da parte dell’utente circa gli specifici brani da riprodurre.

Immagine di copertina: John Tekeridis / Pexels

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