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Ucraina, il 2025 sarà l’anno della ricostruzione? Il dilemma di Donald Trump e la lezione dell’Italia nel 1945

31 Dicembre 2024 - 07:00 Simone Disegni
Se davvero la guerra con la Russia verrà chiusa o congelata, Kiev dovrà rinascere dalle macerie: così 80 anni fa l'Italia ci riuscì (con l'aiuto Usa)

Il 2025 sarà l’anno della pace per l’Ucraina? In quest’ultimo scorcio del 2024 tutti la evocano – lo farà questa sera anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno – ma nessuno sa esattamente in cosa consisterà. Secondo un’autorevole analista come Nathalie Tocci, ci sono in questo momento almeno quattro scenari diversi di «pace» possibile per l’Ucraina: quella ideale per i russi – con lo sfondamento militare, lo smembramento del Paese e un regime fantoccio a Kyiv – e quella ideale per gli europei – la difesa ad oltranza, whatever it takes, dell’Ucraina e il suo inglobamento nell’Ue. E poi almeno due versioni più di compromesso e dunque più realistiche cui guarda probabilmente Donald Trump, con un congelamento del conflitto lungo le linee del fronte esistenti e garanzie di sicurezza a Kiev «sbolognate» dagli Usa all’Europa, anche con lo schieramento di truppe di peace-keeping. Sentieri ancora incerti e delicatissimi, se è vero che il Cremlino ancora nelle ultime 48 ore ha snobbato persino quest’ultimo scenario. Quel che è certo è che per l’Ucraina nel 2025 si aprirà una fase nuova, e che presto – una volta chiuso o congelato il conflitto – il focus internazionale si sposterà sulla ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra. L’Italia, che col 2024 oggi chiude il suo anno di presidenza del G7, ha in agenda come principale appuntamento internazionale del 2025 la Ukraine Recovery Conference, il summit dedicato proprio a questa sfida in programma il 10 e 11 luglio a Roma. Sarà uno snodo cruciale non solo finanziario – per quantificare danni e perdite in Ucraina e direzionare gli investimenti – ma anche politico, per capire fino a che punto l’America di Trump e l’Europa vorranno impegnarsi al fianco di Kiev nel lungo periodo. Ma che significa per un Paese risvegliarsi dopo un’invasione straniera e una guerra di anni? Quali sono le necessità impellenti e quali i dilemmi da affrontare? La notizia è che l’Italia lo sa perfettamente, perché ce l’ha inscritto nella sua memoria storica: ci capitò 80 anni fa esatti, con la fine della guerra e la Liberazione dal nazifascismo. E quell’esperienza ha ancora molto da insegnare.

Le macerie della guerra in Italia

Ferita e distrutta, depredata e indebitata. L’Italia che uscì dal secondo conflitto mondiale era un Paese a terra: moralmente e materialmente. Aveva perso qualcosa come un cittadino su cento nel conflitto, se si danno per buone le stime dell’Istituto Centrale di Statistica di quasi 450mila vittime, tra militari (291.376) e civili (153.147). Per quelli che restavano, il panorama era desolante: quartieri interi di città distrutti dalle bombe, macerie pure lungo le principali vie di comunicazione del Paese. Beni di prima necessità appena sufficienti, soldi in tasca per comprare altro pari spesso a zero. E la gratitudine agli americani per l’aiuto decisivo alla liberazione dal giogo nazifascista si sarebbe presto tramutata in una consapevolezza inquieta di una sovranità riconquistata solo a parole, con la gestione degli affari militari e in buona parte anche civili in mano al comando alleato. La desolazione di quel risveglio, mescolata alla speranza, è restituita da film che hanno lasciato il segno, dalle storiche pellicole di Rossellini a De Sica sino agli exploit recentissimi di Paola Cortellesi (C’è ancora domani) e Gabriele Salvatores (Napoli – New York). Ma la disamina più fredda e precisa della condizione in cui si trovò l’Italia dopo la Liberazione la diede già pochi mesi dopo l’allora governatore della Banca d’Italia (e futuro presidente della Repubblica) Luigi Einaudi, nel rapporto sull’economia italiana pubblicato nella primavera del 1946.

Danni di guerra e (in)dipendenza

Alla «adunanza generale ordinaria dei partecipanti» del 29 marzo 1946 – oggi la chiameremmo Assemblea annuale – Einaudi snocciolò numeri e grafici per fotografare tutte le difficoltà in cui versava il Paese, punto di partenza nella sua visione per una nuova era. Il Paese usciva dalla guerra coi conti pubblici in grave disordine: nel 1944 il deficit di bilancio doveva calcolarsi in «non meno di 200 miliardi» di lire, la gran parte delle quali generato dallo sperpero di risorse del governo fascista di Salò (81 miliardi solo di contributi versati alla Germania come «contributo di guerra»). Nel 1945 il deficit sarebbe salito a oltre 300 miliardi. Ai prezzi attuali di mercato, qualcosa come 5,45 miliardi di euro di deficit, a fronte di un Pil crollato quell’anno all’equivalente di circa 829 miliardi di euro (secondo le stime della stessa Banca d’Italia in una pubblicazione del 2015). Diventava difficile in quel contesto per lo Stato trovare spazi di manovra, e infatti fin dagli anni della guerra civile il governo dell’Italia libera fu costretta a chiedere prestiti, prima agli Alleati e poi al Fondo monetario internazionale. Non si poteva fare diversamente, considerato che c’era da ricostruire un Paese, a partire da strade e edifici. Calcolare i danni infrastrutturali complessivi sul territorio nazionale doveva essere sfida proibitiva, ma il rapporto diede una valutazione dei danni agli edifici di pertinenza della stessa Banca d’Italia significativa: 821 milioni di lire, causati «per circa 264 milioni dalle truppe germaniche e per i rimanenti 557 milioni da azioni di guerra delle forze armate alleate». Estendendo la valutazione all’intero contesto nazionale, si sarebbe potuto dunque stimare che i bombardamenti alleati per piegare il regime di Salò e gli occupanti tedeschi produssero danni doppi di quelli provocati dalle stesse azioni delle truppe nazifasciste.

Prezzi alle stelle e Pil crollato

La gente, d’altra parte, doveva ricostruirsi una vita quotidiana, a partire dalle necessità più basiche: i prezzi dei beni alimentari, stima il rapporto del ’46, erano cresciuti in media di 30 volte rispetto al 1938. Stima che include, precisa senza remore Einaudi, «sia i prezzi ufficiali chè quelli del mercato libero o illegale, sul quale vengono acquistati circa i due terzi delle quantità che costituiscono il fabbisogno alimentare base». A fronte di ciò, le famiglie potevano concedersi ben pochi altri pensieri: secondo Bankitalia le spese per l’alimentazione assorbivano alla fine dell’anno della Liberazione circa i tre quarti del bilancio medio famigliare, ben 20 punti percentuali in più dunque dello stimato 55% del 1938. Nel complesso, l’istituto economico non poteva dire con certezza di quanto fosse arretrato il Pil del Paese (lo si chiamava allora “reddito nazionale”), ma «valorosi statistici» stimavano il crollo negli anni della guerra attorno al -40%.

L’assalto ai forzieri della Banca d’Italia

Oltre a rilevare tendenze e problemi dell’economia reale, d’altra parte, chi guidava la Banca d’Italia aveva i suoi bei tormenti pure interni. Negli anni della guerra e dell’occupazione infatti i nemici dell’Italia avevano fatto mambassa pure dei denari custoditi della Banca nazionale. «Da parte delle forze armate germaniche e delle sedicenti autorità repubblicane sono stati asportati o irregolarmente prelevati valori ammontanti a complessivi 449 milioni di lire, di cui circa 59 recuperati», riepiloga Einaudi. Cui devono aggiungersi gli ulteriori 250 milioni portati via dalle forze armate jugoslave 250 milioni, «di cui 13 recuperati» e gli altri 298 milioni «ad opera di formazioni insurrezionali». Senza contare l’asportazione delle riserve metalliche della Banca operata metodicamente dal regime di Hitler e dai suoi alleati fascisti, «per un totale di 95.864 chilogrammi di oro fino e di 3.470 chilogrammi di argento monetato». Per fortuna la Banca poté recuperare con la Liberazione buona parte delle riserve d’oro che i tedeschi avevano portato via da Roma, con la complicità dei fascisti e dell’allora governatore Azzolini, come ricostruito da Federico Fubini ne L’oro e la patria, trasferendolo prima a Milano e poi a Fortezza, nei pressi di Bolzano. Senza quell’oro, pari a 429 milioni di lire, la Banca si sarebbe trovata pressoché senza riserve, come mostra il rapporto (appena una quindicina di milioni rimasta in cassa, altri 18,4 depositati all’estero). Tradotto, sarebbe stato difficilissimo per l’Italia contrarre prestiti con l’estero, dunque porre le basi per la ricostruzione.

Un ufficiale tedesco sorveglia una partita di lingotti sottratti alla Banca d’Italia

La sfida della ricostruzione: ieri l’Italia, domani l’Ucraina

Cosa che invece Einaudi considerava non solo possibile, ma perfino doverosa, così da «riparare alle perdite inflitte dal malgoverno passato e dalla infausta guerra. Occorre, cioè, volenti o nolenti continuare a stringerci la cintola. Questa è la sostanza del piano economico che l’Italia deve, per vie spontanee o forzate, oggi seguire per la sua ricostruzione». Erano i presupposti morali del miracolo economico che si sarebbe prodotto di lì a qualche anno, anche grazie ai contributi decisivi dello European Recovery Program varato dagli Stati Uniti per risollevare le sorti dei Paesi europei devastati dalla guerra. Meglio noto come Piano Marshall, dal nome dell’allora segretario di Stato Usa che lo pensò ed elaborò. L’idea sottostante, vista dall’America, era che un’Europa di nuovo in forze – ovviamente nella direzione politica ed economica auspicata dagli Usa – fosse nell’interesse anche d’Oltreoceano, per avere partner solidi con cui commerciare e per scongiurare l’espansionismo dell’altra grande potenza uscita vincitrice dalla guerra, l’Unione sovietica. Meglio prendere per mano, aiutare con investimenti ingenti, far crescere ed inglobare gradualmente nelle istituzioni occidentali politiche, economiche e militare, dunque, piuttosto che disimpegnarsi a fronte delle mire imperialiste della Russia. Donald Trump e i suoi alleati europei avranno la forza di seguire la stessa strada dal 2025 con l’Ucraina di Volodymyr Zelensky?

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