La provincia, la trap che piace ai nipoti, il primo Sanremo, Brunori Sas: «Vivere in Calabria mi fa stare con i piedi per terra» – L’intervista
Prima che Carlo Conti svelasse i nomi dei 30 big in gara alla prossima edizione del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, il nome di Brunori SaS girava moltissimo. In realtà da anni il cantautore calabrese, emerso durante gli anni del famigerato indie, e diventato immediatamente icona assoluta del nuovo songwriting all’italiana, è atteso sul palco più illuminato e scottante d’Italia. Conti con Dario Brunori, cosentino classe 1977, ha fatto il vero colpaccio, diremmo quasi che la situazione, proprio per la gigantesca affezione del pubblico verso le sue canzoni, potrebbe risultare quasi storica: «Ti ricordi quella volta che Brunori SaS è andato a Sanremo?». La canzone che porterà in gara si intitola L’albero delle noci e così si intitola anche il disco in uscita il 14 febbraio, quindi pochi giorni dopo la chiusura del sipario dell’Ariston. Dieci tracce per un album che potrebbe rappresentare un interessantissimo spartiacque nella discografia del cantautore, non solo perché si materializza in un disco la nuova collaborazione con Riccardo Sinigallia, ma anche perché, da quello che abbiamo ascoltato si capisce bene la volontà di un cambiamento rispetto alle ultime uscite, come Cip!, ormai quattro anni fa. Da un lato la necessità, come racconta nell’intervista sotto, di prendere spazio dalla formula ballad, dall’altro la voglia e l’energia di recuperare una visione lontana, provinciale, più rude e ficcante. Esperimento riuscito.
Perché Sanremo e perché adesso?
«Perché credo tanto in questo lavoro e credo meritasse il riflettore più potente che c’è in questo momento sulla musica. La canzone non l’ho scritta per Sanremo ma ci credo molto. Samuele Bersani una volta, parlando di Sanremo in tempi non sospetti mi ha detto “se ci devi andare, vai con una canzone della quale sei convinto, perché altrimenti è un tritacarne”. Ho seguito il suo consiglio»
Il pubblico ti aspettava da tanto su quel palco…
«Prima non coincideva mai con un periodo in cui avevo una canzone pronta, e anche quando c’è stata una mezza possibilità negli anni passati avevo più timori, mi creava più ansia che una sensazione positiva e non me la volevo vivere con ansia. Adesso mi sento più leggero, forse con l’età mi sono ammorbidito pure io»
C’è qualcosa che ti mette paura del Festival?
«Credo sia più tutta questa adrenalina che – anche se di natura sei tranquillo – là non puoi esserlo perché vieni coinvolto da questa tensione che inevitabilmente ti influenza. Quindi mi spaventa un po’ quello: non essere pronto da quel punto di vista: l’idea che possa essere più un accollo che una cosa in grado di darmi gioia o divertirmi»
L’albero di noci esce quattro anni dopo Cip! Tu non senti la pressione della tempistica della discografia attuale?
«Ma no, perché io ho la fortuna di aver costruito negli anni un percorso per cui anche adesso che sono all’interno di una major non ho questo tipo di pressioni. Devo dire che mi lasciano una grande libertà anche di uscita, forse perché sanno che altrimenti non funzionerei. Quindi comunque se ti pigli Brunori, sai anche che cosa t’aspetta»
Non saresti più Brunori, no?
«Io non ho quei tempi là, non posso averli, anche perché la mia proposta non ha quel tipo di obiettivo. Io cerco sempre di far sì che le mie canzoni siano racconti di vita e quindi uno un pò la vita la devo vivere, non è che posso raccontare dopo sei mesi»
Cosa troveranno i tuoi fan di nuovo in questo disco?
«Ho cercato di non ripetermi ma senza fare rivoluzioni sciocche. Mi sono detto: “Ok se non vuoi andare da oggi in poi col pilota automatico e campare di rendita su quello che hai fatto, c’è la necessità di fare qualche cambiamento”. E uno di questi era anche proprio sul sound, sul cercare di esplorare territori che non hanno proprio strettamente a che fare con la formula chitarra e voce. Alcuni brani così li abbiamo lasciati ma non volevo fare un disco di tutte ballad»
Nel disco sembra essere tornata un po’ una visione dalla provincia, che poi è quella del periodo in cui la tua musica è diventata nota.
«La funzione della provincia come stimolo artistico è sempre molto potente. Funziona perché l’Italia continua a essere un Paese di paesi, quindi c’è un tessuto umano che invece si rivede di più nel canto della provincia che non nelle storie metropolitane»
E dalla provincia come si vede la città?
«La provincia è affascinata dalle storie metropolitane perché non le vive. Io vedo i miei nipoti, che stanno in un paesino in Calabria, che chiaramente sono affascinati dalla trap. Perché comunque racconta anche un contesto che loro vivono molto da lontano, quindi sono affascinati da quello che non vivono»
Tra l’altro tu, altra scelta controcorrente rispetto i trend, hai deciso di vivere nel tuo paese in Calabria…
«Non lo so se è un disco che parla tantissimo del vivere in un paese, però sicuramente il mio sguardo è lo sguardo di uno che vive lontano dai centri grossi. Il vivere lontano mi dà la possibilità di guardare alle cose del mondo con uno sguardo privilegiato. E poi mi tiene anche coi piedi per terra, perché è chiaro che una cosa è fare quello che faccio a Milano, una cosa è farlo in un contesto dove alla fine, si, sei un cantante, però sei pure Dario Brunori e basta»
Se i tuoi nipoti di fanno ascoltare la trap vuol dire che sei preparato sull’argomento. Ultimamente si è molto parlato di censura rispetto i testi della trap…
«Il tema reale, al di là dei dibattiti, è proprio che bisogna capire quando un’opera sta raccontando qualcosa, altrimenti dovremmo mettere sotto censura praticamente tre quarti delle opere. È molto importante su queste tematiche non essere superficiali, altrimenti si rischia non solo la censura, ma anche di andare a inibire le opere future che possono raccontare, proprio per trasfigurazione da parte dell’autore, delle dinamiche importanti»
Anche tu hai fatto dei pezzi fraintendibili…
«Io ho cantato Colpo di pistola, dove parlo in prima persona nel ruolo di un uomo che uccide una donna. In Pornoromanzo mi sono ispirato a Lolita, ma questo ha sempre fatto l’arte, quella a cui io sono affezionato e di cui mi sono innamorato: darmi una finestra verso mondi altri, anche mondi che non mi piacciono, perché non è facile, anche per chi scrive, indossare determinati panni»
Negli ultimi giorni in molti stanno commentando l’interpretazione di Mussolini di Luca Marinelli…
«È chiaro che è questo che che deve fare l’arte, proprio per raccontarla nel modo più giusto. È facile dire “è sbagliata la violenza sulle donne” oppure “viva la pace”, bisogna raccontarle determinate dinamiche. Quindi la differenza è se l’opera racconta certe cose con una finalità, se il racconto ha uno studio e un pensiero dietro, oppure quando la racconta semplicemente per il gusto di raccontare una cosa gratuita»
Cosa ti piacerebbe rimanesse di questo disco in chi lo ascolta?
«Un sorriso dopo un piantino. Mi piacerebbe proprio che ci fosse quella felicità che t’arriva dopo un bel pianto liberatorio»