Il buio dietro Cecilia Sala: così mentre liberava la reporter l’Iran condannava a morte altri tre detenuti di Evin
Dopo la liberazione, la gioia, l’euforia, ma pure «il senso di colpa dei fortunati». Lo ha definito così Cecilia Sala quel malsano senso di rimorso che resta appiccicato addosso dopo aver riassaporato la libertà, sacrosanta, mentre lì dietro, in quell’inferno che è il carcere di Evin restano rinchiusi in migliaia. Sono i detenuti della prigione di massima sicurezza dell’Iran, in buona parte oppositori politici – tali o presunti. E per loro non c’è mobilitazione di media o governi stranieri che tenga. Restano nel buio – anzi, nella luce accecante 24 ore al giorno di Evin – e nel silenzio. Sino alla rara salvezza o invece al peggiore dei destini. Proprio nel giorno in cui arrivava l’agognata svolta per il destino di Cecilia Sala, per grottesco paradosso, le autorità iraniane confermavano in via definitiva la condanna a morte di altri tre detenuti di Evin. Mercoledì 8 gennaio la Corte Suprema di Teheran ha infatti convalidato l’esecuzione di Pakhshan Azizi, Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani, secondo quanto riportato dall’ong Hrana. Ora a provare a far sentire la loro voce e chiedere che si fermi la macchina della morte di Stato sono decine di prigionieri politici iraniani. Che in una drammatica lettera aperta, di cui dà conto la testata Iran International, chiede al mondo di non voltare la testa dall’altra parte di fronte alle convulsioni mortifere del regime degli Ayatollah.
L’appello al mondo: «Fermate la repressione»
«Mentre continua le sue politiche interne ed estere fautrici di crisi, il sistema di potere in Iran cerca soluzioni tramite la crescente repressione nelle sfere sociali, politiche e culturali», si legge nella lettera firmata da 68 prigionieri politici di diverse prigioni del Paese. Solo nel 2024 appena conclusosi, viene ricordato, Teheran ha messo a morte oltre 1.000 persone. Un macabro primato: equivale a quasi il 75% di tutte le esecuzioni nel mondo. «Non è solo una statistica, è un metodo per silenziare gli oppressi», scrivono i prigionieri, per «mantenere un’atmosfera di terrore nella società» pervasa da fremiti di libertà e da movimenti di protesta che assumono forme sempre nuove. Da ormai quasi un anno i detenuti di decine di prigionieri in Iran aderiscono a una campagna collettiva di scioperi della fame per cercare di tenere alta l’attenzione sulla piaga della repressione e delle condanne a morte. Secondo la stessa Hrana, sono nel complesso 54 i detenuti che rischiano al momento di essere messi a morte sula base di accuse di tipo politico o di sicurezza. E ieri il ministero degli Esteri francese ha convocato l’ambasciatore iraniano a Parigi per protestare contro la detenzione ingiusta e indegne di tre cittadini francesi a Evin, considerati nient’altro che degli «ostaggi della Repubblica islamica».
In copertina: Pakhshan Azizi, Behrouz Ehsani Eslamloo e Mehdi Hassani, i tre prigionieri del carcere di Evin di cui la Corte Suprema iraniana ha appena convalidato la condanna a morte