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«Il Mostro di Firenze era un serial killer solitario, i Compagni di Merende sono innocenti»

mostro di firenze compagni di merende pietro pacciani giancarlo lotti mario vanni
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Gli avvocati del nipote di Mario Vanni chiedono la revisione del processo. E portano alcune prove a supporto della richiesta

La locuzione “compagni di merende” nasce dalla testimonianza di Mario Vanni durante il primo processo nei confronti di Pietro Pacciani con l’accusa di essere il Mostro di Firenze. L’ex portalettere di Montefiridolfi la pronuncia all’esordio dell’interrogatorio del pubblico ministero Paolo Canessa: «Io sono stato a fa’ delle merende co’ i’ Pacciani, no?». Vanni e il reo confesso Giancarlo Lotti sono stati condannati in via definitiva per aver fatto parte della banda con Pacciani, nel frattempo deceduto. E quella sentenza compone la verità processuale sul serial killer responsabile dell’omicidio di otto coppie tra il 1968 e il 1986. Ma oggi gli avvocati del nipote di Vanni Valter Biscotti e Antonio Mazzeo hanno depositato una richiesta di revisione del processo che ha condannato Vanni all’ergastolo e Lotti a trent’anni. Vogliono dimostrare che Lotti era innocente. E così riscrivere tutta la storia del Mostro.

La richiesta

«È una battaglia di civiltà giuridica. Qualcuno si deve assumere il compito di eliminare i detriti che anche in un processo penale impediscono la ricerca della verità. Dopo 30 anni certi processi si vedono meglio, anche grazie alla scienza», dicono i legali al Fatto Quotidiano. Lotti, detto Katanga, all’epoca era disoccupato con una diagnosi di oligofrenia. Vanni, soprannominato Torsolo, aveva problemi di alcolismo e demenza. Il primo confessa di aver preso parte ad alcuni dei delitti e chiama in causa anche il secondo. Afferma di aver anche sparato in un’occasione, su richiesta di Pacciani. Il quale, secondo questa ricostruzione, avrebbe ucciso per prendere i feticci e in qualche modo venderli a qualcun altro. Le risultanze di quel processo hanno portato alle indagini sul Secondo Livello poi finite in un buco nell’acqua. Ma adesso, secondo i legali di Vanni, ci sono le prove per puntare sull’innocenza.

Le prove

Quali? Prima di tutto due consulenze, firmate da Fabiola Giusti e Stefano Vanin, che retrodatano uno dei delitti descritti in modo più dettagliato da Lotti. Ovvero quello di Jeanine Nadine Mauriot e Jean Kraveichvilj, avvenuto l’8 settembre del 1985 a San Casciano Val di Pesa, in località Scopeti. Lotti dice che i Compagni di Merende hanno ucciso di domenica. Ma lo studio delle larve, effettuato con tecniche che allora non erano a disposizione della scienza, porta indietro le lancette almeno al venerdì sera. Facendo venir meno tutto il racconto. Poi ci sono le testimonianze. La prima è quella del barista che disse di aver visto viva la vittima domenica mattina, ma per averla riconosciuta da una foto pubblicata due giorni dopo sulla Nazione. In quella foto Nadine Mauriot aveva quindici anni in meno e un taglio di capelli diverso. Altri due testimoni dicono che quella domenica Lotti non era agli Scopeti.

La pallottola

Poi c’è la pallottola trovata nel giardino di Pacciani. Nel 2019, secondo i giornali, la procura ha condotto alcune analisi e ha concluso che era stata in qualche modo artefatta. E in ogni caso non era compatibile con l’arma del delitto, la Beretta calibro 22 che ha “firmato” tutti gli omicidi a partire da quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, che per la giustizia italiana è stato fatto dal marito Stefano Mele. «Ho conosciuto mio zio come un uomo pacifico. Lo chiamavano in quel modo perché era ignorante, incapace di delitti efferati», dice il nipote Paolo. Secondo gli avvocati l’assassino è un killer solitario e calcolatore, come da profilo dell’Fbi dell’epoca. Un profilo che non combacia né con Pacciani né con Lotti e Vanni.

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