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La faida, i maltrattamenti, i ricatti: cosa c’è dietro i «motivi comprensibili» del duplice femminicida di Modena

salvatore montefusco gabriela trandafir renata trandafir femminicidi umanamente comprensibili
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La storia della sentenza che evita a Salvatore Montefusco l'ergastolo per l'omicidio della compagna e della figliastra. La testimonianza decisiva del figlio e le 13 denunce delle vittime

È il 13 giugno 2022 quando un ragazzo chiama il 112 a Castelfranco Emilia: «Aiuto, c’è mio padre pazzo che ha ucciso mia sorella». Salvatore Montefusco ha appena sparato a Renata Trandafir in giardino. E sta andando verso Gabriela, sua madre. Il giovane si sveglia per i colpi del fucile semiautomatico Beretta modificato con matricola abrasa e canne mozze. E prova a fare da scudo a sua madre. L’operatore del 112 la sente ansimare: è stata già colpita a un braccio. Poi sente dall’altro capo del telefono l’ultimo colpo, quello che serve a ucciderla. Lui, il ragazzo, scappa nei campi che separano Modena da Bologna. E un anno più tardi, durante il processo per duplice omicidio nei confronti del padre, dirà che in famiglia c’era «una faida» spesso iniziata dalle due donne. Contribuendo così alla sentenza che ha evitato a Montefusco l’ergastolo.

«Umanamente comprensibili»

Il provvedimento dei giudici Ester Russo e Danilo De Padua parla della «comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il reato». Ovvero le continue provocazioni, umiliazioni e minacce che l’omicida subiva dalle sue vittime. La Stampa fa sapere che il duplice omicidio è avvenuto il giorno prima dell’udienza di separazione tra Montefusco e Trandafir. I due si erano conosciuti nel 2001. Lei badante, lui muratore diventato imprenditore edile. Lui era ancora sposato e nel 2008 la moglie scopre la relazione. Con Gabriela avevano già avuto un bambino di tre anni. E lei aveva fatto venire dalla Romania la figlia Renata. Poco dopo il matrimonio comincia lo scambio di querele in cui entrambi si accusano di vessazioni. Abusi, minacce, violenze fisiche, privazione patrimoniale e stalking nei racconti di Gabriela. La sentenza le definisce «nefaste dinamiche famigliari». Per i giudici che lo hanno condannato, questo ha fatto scattare in lui «un blackout emozionale, che lo avrebbe condotto a correre e prendere l’arma».

«L’ergastolo è per noi»

Elena Tiron, sorellastra di Gabriela Trandafir, parla con il quotidiano piemontese di quello che vive come «il secondo omicidio» di due donne con cui aveva un legame di sangue. «Sento che qui l’ergastolo purtroppo l’abbiamo avuto noi e lui ha ricevuto solo 30 anni. Hanno ucciso due volte sia Gabriela che Renata», esordisce. Secondo lei Gabriela non perseguitava Salvatore: Lui tra l’altro non ha mai abitato con loro. Si è trasferito a casa di mia sorella solo dopo aver saputo che lei lo aveva denunciato per maltrattamenti. Prima, viveva ancora a casa della sua ex moglie, con i figli avuti da quel matrimonio. C’è anche un’intercettazione tra lui e il suo avvocato che lo dimostra. Andava lì per provocarla, per privarle entrambe del cibo, per rompere le cose. Sapeva che, non lavorando, dipendevano da lui e voleva lasciarle senza soldi e senza casa».

13 denunce

Elena dice che «sono state fatte 13 denunce. Una l’ho fatta io personalmente, pregando i carabinieri di intervenire, perché sapevo che Salvatore avrebbe fatto loro del male. Però, non hanno fatto niente. Questo è quello che ci resta». Mentre il figlio di Gabriela «dal giorno in cui sua mamma e sua sorella sono state uccise, non ha mai voluto avere contatti con me. Io l’ho cercato tante volte, anche attraverso gli assistenti sociali, ma lui non ha mai voluto. Tre giorni dopo l’omicidio, l’ho incontrato al funerale. Mi ha detto che voleva vivere nella casa che era stata di suo padre. Io gli ho domandato come potesse voler vivere nella casa di un assassino, sapendo quanto sua madre e sua sorella lo odiassero, ma non sono riuscita a avere una risposta, a convincerlo o farlo ragionare. Questo, è uno dei più grossi dolori che mi restano».

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