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«Quella volta che mia madre, testimone di Geova, mi abbandonò sulla panchina perché non mi piaceva il suo regalo» – L’anticipazione

21 Gennaio 2025 - 00:05 Alba Romano
il dio che ha scelto per me martina pucciarelli libro testimoni geova
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Le rivelazioni raccontate da Martina Pucciarelli sulla comunità chiusa e promiscua da cui si è allontanata. Il libro di HarperCollinsItalia oggi in libreria. Ecco le prime pagine

Esce in edicola oggi, martedì 21 gennaio, Il Dio che hai scelto per me, il romanzo autobiografico per HarperCollinsItalia di Martina Pucciarelli. Al suo esordio letterario la 37enne, livornese ma da anni ormai trasferitasi a Milano, racconta la sua esperienza di vita nella sua famiglia di Testimoni di Geova. «C’è una via di mezzo tra fare orge in casa e costringermi a sposarmi vergine. Invece, loro hanno scelto gli estremi. Hanno immolato me per espiare i loro peccati», è il giudizio sui genitori che per anni hanno condizionato le sue scelte. Attraverso piccoli e grandi momenti di ribellione, Martina Pucciarelli si è emancipata dalle imposizioni e si è coraggiosamente allontanata dalla comunità, in un percorso di ricostruzione di sé stessa che ha stravolto il suo destino e quello delle persone che ama. Il Dio che hai scelto per me è una storia intima e dolorosissima, fatta di privazioni, abusi e violenza, ma anche un libro impregnato di una forza straordinaria che ci mostra come il coraggio di cambiare nasca sempre da una forma altissima di amore, in questo caso da quello puro e incondizionato di una madre. Qui di seguito l’anticipazione del primo capitolo del libro Il Dio che hai scelto per me, (HarperCollinsItalia, 18€, 240 pp), per gentile concessione della casa editrice.

«Il Dio che hai scelto per me», l’anticipazione del libro di Martina Pucciarelli: il primo capitolo

Appena ingranata la retromarcia, mia madre mi guardò furente. Non riuscivo a capire cosa avevo fatto di tanto grave per scatenare il peggiore dei miei incubi: essere abbandonata. L’incubo si stava realizzando in quel momento, su una panchina, e io non ero preparata. Eppure, nell’aria perdurava qualcosa di magico. Il sole rischiarava fulgidamente ogni cosa, rendendo più aggraziata perfino quella periferia popolare. Da un panificio vicino si diffondeva nell’aria la fragranza di schiacciata appena sfornata, confortante come una promessa di felicità. Gli oleandri intorno tendevano il fogliame sempreverde verso la luce, appuntiti come il freddo di tramontana che nell’inverno di Livorno sgombra il cielo d’ogni nuvola. La neve si era sciolta da poco. Quell’anno era arrivata fino al livello del mare, come non accadeva da moltissimo tempo. Si trattava di un evento eccezionale, proprio come quella giornata appena iniziata e già precipitata: fino a qualche minuto prima eravamo io e la mamma, mano nella mano, e nessun altro. Come era potuto succedere che ora lei se ne stesse andando senza di me? Rimasi zitta, immobile, saldamente ancorata alla panchina che in quel momento era la mia unica certezza.

Ecco cosa fare in caso di abbandono: devi soltanto lasciare convergere tutto il tuo peso nel punto in cui ti trovi, per non smarrirti e farti portare via da una violenta e improvvisa folata di vento. La presa deve essere ben salda. Iniziai a piangere mentre guardavo mia madre allontanarsi in auto, furiosa, e rifiutarmi. Non mi disperai, rimasi composta nel mio dolore, qualcosa sarebbe successo.

Da qualche tempo mi ero trincerata nel silenzio, rispondendo solo “forse” quando venivo interpellata, una sorta di sciopero della parola, una forma di protesta pacifica messa in atto senza però averne cognizione di causa. Un giorno di quell’inverno smisi semplicemente di parlare, destando non poche preoccupazioni. Ero una bambina molto ubbidiente, vivace ma con un forte senso del dovere e l’obiettivo principale di dare meno disturbo possibile ai miei genitori, essendo io la seconda di cinque figli. Avevo otto anni e dividevo la vita e la stanza da letto con due fratelli e due sorelle, di cui tre più piccoli di me. Lavorava solo papà, mentre la mamma era dedita alla cura dei figli e della casa. Un solo stipendio, l’affitto da pagare, i soldi sempre troppo pochi, mia madre colma di frustrazione e mio padre ritirato in un mondo tutto suo fatto di poesia, fotografia, radiocomunicazioni e altri ritagli di passioni giovanili che conservava con accanita gelosia, in grado di isolarlo da tutto e di offrirgli protezione da strilli, pianti, debiti, la costante necessità di un miracolo economico, i conflitti irrisolti con i suoi genitori.

La mia protesta silenziosa non doveva pertanto minare gli equilibri familiari che mi volevano buona, affettuosa, ricettiva agli ordini, responsabile verso i miei fratelli e le mie sorelle, attenta agli umori di mia madre. Ben presto, però, il mio silenzio era diventato un’anomalia disturbante. Un impiccio. Gli adulti si attivarono allora con domande di vario tipo per stimolarmi.

«Ti piace la neve?» mi aveva chiesto la mamma pochi giorni prima.
Ma io rispondevo solo “forse” a qualsiasi domanda.
«Non mi devi rispondere “forse”», aveva ribattuto lei.
«Se mi rispondi “sì”, ti faccio scendere a giocare con la neve, altrimenti resti qui a casa».

Non avevo mai visto la neve a Livorno, e nemmeno altrove. Le famiglie più abbienti della mia, per poter godere di quel bianco immacolato senza allontanarsi troppo dalla città, salivano fino all’Abetone; noi una settimana bianca non potevamo permettercela, e neppure una sola giornata in alta montagna perché a stento riuscivamo a comprare una giacca a testa, figurarsi il corredo da sci. Quella, perciò, era un’occasione irripetibile. All’aut aut di mia madre di scegliere tra la neve e la parola, tuttavia, non cedetti e restai a casa a osservare dalla finestra i miei fratelli lanciarsi palle di quella bianca meraviglia.
Quel giorno mia madre mi aveva portata con sé a fare acquisti in un negozio dove era possibile comprare a buon mercato vestiario per tutta la famiglia. Come sempre, io l’avevo seguita senza protestare, come se fossi una sua estensione. Eravamo spesso in completa comunione di sentimenti: ciò che piaceva a lei, piaceva a me. Ciò per cui si indignava, indignava anche me; qualsiasi cosa lei amasse, temesse, rigettasse, io amavo, temevo, rigettavo a mia volta con maggiore intensità. Era come se le mie terminazioni nervose fossero collegate al suo sistema nervoso centrale: il suo dolore era anche il mio, così come le carezze mancate; potevo sentire caldo e freddo per lei.
La mamma acquistò qualche rimanenza del negozio in offerta, e scelse per me una felpa multicolore, in pile spesso. Era raro poter godere di lei in modo esclusivo, non doverla dividere con nessuno, avere la sua completa attenzione. Decisi quindi che era arrivato il momento di aprirmi liberamente con lei e, una volta uscite dal negozio, quando mi chiese se la felpa mi piaceva, pronunciai un chiaro e inequivocabile “no”.

Ruppi in questo modo l’abitudine ai “forse” che durava da settimane, uscendo dal territorio neutro del dubbio in cui mi ero rifugiata, con un’attestazione: no, non mi piace quello che hai scelto per me. Avrei potuto scegliere altre parole: avrei potuto rispondere “sì” o, meglio ancora, “sì, grazie”. Avrei potuto dire alla mamma che la felpa era bellissima, o che non vedevo l’ora di indossarla; invece, la mia nota compiacenza in quel frangente venne meno, e il “no” si impose in me con prepotenza. Mia madre decise allora di impartirmi una lezione fondamentale: non avrei più dovuto dire ciò che pensavo.

La vidi trasformarsi, assumere una forma mai conosciuta prima.

«Adesso basta: sono stanca!». Mi prese per i capelli e mi strattonò con forza. «Non ti piace? Ho capito bene?» La voce e lo sguardo feroci, il pugno che stringeva ciuffi di capelli. «Avessi mai ricevuto io un regalo da bambina! Un’attenzione, una carezza: niente!»

Mi fece sedere di forza su una panchina davanti a dove aveva posteggiato il nostro furgoncino familiare.
«Sono stanca! Mi hai sentito? Sono stanca!»
Annuii più volte, guardandola, incapace di reagire.
Mi intimò di non alzarmi. Mentre infilava le buste nel bagagliaio del Ducato, la sentii mormorare tra sé e sé: «Non le piace, non le piace… mai un regalo… una carezza…».
Poi salì in auto, mise in moto e se ne andò.
Ero rimasta sola.

Tornò indietro quasi subito, divorata dai sensi di colpa. Scese dal furgoncino, farfugliando qualcosa – «Perdonami Dio, perdonami Dio» –, mi attirò a sé. Poi mi ripose, come un pacco di cui poco prima si era solo dimenticata, nel Ducato parcheggiato nuovamente davanti alla panchina dell’abbandono. Mi sistemò sul sedile del passeggero e ripartì. Iniziò a piangere, guardando, mentre guidava, ora la strada, ora me, con insistenza, e mi accarezzava convulsamente la testa. Era come se fosse in attesa di un verdetto, come se sperasse che io dicessi qualcosa per scagionarla: non preoccuparti, mamma, so che era solo uno scherzo, resti comunque una buona madre. Restai in silenzio. Forse ero davvero una bambina difficile, ma lei era troppo ipocrita per chiedersi perché. «Quando torniamo a casa raccontiamo a papà cosa ho fatto» mi disse infine. Accennai un “sì” con la testa per rassicurarla, le lacrime ormai asciutte, gli occhi oltre il finestrino in cerca delle ultime tracce di neve: stava spartendo i suoi sensi di colpa con me. Mio padre l’avrebbe certamente scusata e, in ogni caso, non mi avrebbe fatto da scudo, non avrebbe agito in alcuna maniera, questo lo sapeva anche lei. Il danno ormai era fatto e lasciai al suo Dio giudicarla.

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