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L’ex consigliere di Netanyahu: «Con Trump la prova sarà sull’Iran. La tregua? La destra spinge per un esercito più aggressivo» – L’intervista

21 Gennaio 2025 - 18:36 Simone Disegni
Trump Netanyahu Usa Israele
Trump Netanyahu Usa Israele
L'ex colonnello Eran Lerman a Open: «Netanyahu ben felice delle dimissioni del capo di stato maggiore, lui non si scuserà mai per il 7 ottobre»

Quasi 500 giorni dopo il 7 ottobre 2023 – la peggior strage nella storia d’Israele, invaso e deriso da Hamas, centinaia di suoi cittadini massacrati e presi in ostaggio – il capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi ha tratto il dado e rassegnato le dimissioni, «quale riconoscimento della mia responsabilità per i fallimenti dell’Idf il 7 ottobre», i quali, ha detto, «mi inseguiranno per tutta la vita». Subito dopo ha rimesso l’incarico, con identica motivazione, pure il capo del comando sud dell’esercito Yaron Finkelman. Una scossa potentissima al Paese, che da quel sabato nero aveva lasciato i conti delle responsabilità in sospeso per dare priorità all’autodifesa e alla risposta militare contro Hamas. Ora che la guerra a Gaza è stoppata – almeno temporaneamente – dall’opposizione israeliana già salgono gli appelli perché Benjamin Netanyahu faccia finalmente lo stesso mea culpa e si dimetta. Pie illusioni, spiega a Open Eran Lerman, ex colonnello dell’esercito e già consigliere di Netanyahu per la politica estera, che ora osserva la delicata evoluzione delle questioni militari dall’osservatorio del Jerusalem Institute for Strategy and Security. Netanyahu non si dimetterà mai, se non per provare a tornare al voto da una posizione di forza. Nell’immediato, sostiene Lerman, si farà se mai scudo del passo indietro dei vertici militari, mentre i leader dell’ultradestra sono già pronti a passare all’incasso, chiedendo che a guidare l’esercito vadano ora generali più oltranzisti.

Dott. Lerman, nell’arco di pochi giorni è cambiato tutto per Israele. Prima il cessate il fuoco, ora il ritorno al potere di Donald Trump, che ha ribadito di voler essere ricordato nei libri di storia come «peace-maker». Reggerà l’intesa con Hamas?

«Ci si muove su un filo delicatissimo. Hamas sa che nel momento in cui dovesse consegnare tutti gli ostaggi non avrà più alcuna carta da giocare. Proverà in tutti i modi a evitarlo. Servirà un’immensa pressione da parte dei mediatori, in primis dal Qatar, perché si proceda alla seconda fase. Domenica Hamas ha messo in scena una prova di forza, ma occhio a non cadere nella trappola. Oggi è molto più debole, e se si guardano bene quelle immagini lo si nota: cerca qualche centinaio di persone, non migliaia. Molti dei palestinesi stessi, nonostante la brutale repressione di Hamas, capiscono che la distruzione della Striscia in cui ora si ritrovano è il risultato delle loro azioni».

Eran Lerman, vicepresidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security

Eppure Hamas è ancora lì, e nell’accordo siglato nulla garantisce che sarà espulsa dalla Striscia.

«Entrambe le Amministrazioni Usa che hanno lavorato all’accordo – sia quella di Biden che quella di Trump – hanno chiarito che Hamas non potrà continuare a governare Gaza. Il problema è che manca un’alternativa coerente. Molti in Occidente pensano all’Autorità nazionale palestinese. Ma in Israele molti non sono affatto d’accordo, perché al di là delle questioni di legittimità l’Anp è considerata totalmente corrotta e incapace di far rispettare l’ordine, persino a Jenin con le fazioni armate che dovrebbe controllare».

E quindi? Cosa ha in mente Netanyahu?

«Proverà a far leva sulla sua intesa con Trump per spaventare Hamas così da ottenere il rispetto delle domande israeliane per la fase 2 dell’intesa. Se ci riuscirà, facendo liberare tutti gli ostaggi, non mi stupirebbe se acconsentisse poi alla richiesta di Trump di chiudere davvero la guerra, rompendo con Smotrich e andando a elezioni anticipate. Se non si dovesse riuscire a passare alla fase 2, tornerà a combattere e resterà in sella l’attuale governo. Non dimentichiamo che a quel punto avremo una nuova leadership militare (le dimissioni di Halevi avranno efficacia dal 6 marzo, ndr). Ci sarà pressione perché l’Idf si faccia a quel punto più aggressivo nel condurre le sue operazioni: prendere e tenere il controllo di territori sino a che qualcun altro che non sia né Hamas né l’Anp possa farlo.

Tradotto: Netanyahu e i suoi alleati di ultradestra sono ben felici delle dimissioni di Halevi.

«Senza dubbio. Per ragioni speculari. Da destra l’Idf è regolarmente criticato per non aver agito con aggressività sufficientemente sistematica a Gaza. In sostanza dopo i primi mesi di guerra sono passati da una modalità “prendi e mantieni” (porzioni del territorio, ndr) ad una “prendi e poi vai vai” – una serie di incursioni su larga scala ma rinunciando poi a mantenere il controllo. Ora premeranno quindi per una guida diversa delle operazioni. Netanyahu, dal canto suo, non vede l’ora di lasciar passare il messaggio che le responsabilità del 7 ottobre non erano sue ma dell’esercito. È stata la peggior catastrofe della nostra storia – villaggi invasi, gente massacrata: avrebbe dovuto fare come fece Golda Meir nel 1973, ammetterlo e dimettersi. Ma per lui sarebbe fare Harakiri, non lo farà mai».

Lei lo conosce bene, avendo lavorato con lui.

«Sì, tra il 2009 e il 2015. Ma era un altro uomo. Era una figura molto più “centripeta”. Aveva sempre con lui qualche partner di centro o centrosinistra: Ehud Barak, i laburisti, Yair Lapid, Tzipi Livni. C’era sempre qualcuno a bilanciare il quadro. Poi, anche per le sue vicende personali, è cambiato. È tornato al governo con una coalizione tutta a destra e si è reso dipendente dal sostegno e dalla buona volontà di Smotrich e Ben Gvir. Ora tutto scricchiola. Non penso che il governo durerà sino alla fine del 2025».

Lui ha scommesso tutto sul ritorno al potere di Trump e ora si fa forte del rinnovato asse. Quanto è davvero solido?

«Non ha potuto dirgli di no su Gaza perché sa che avrà bisogno di tutto il suo sostegno sul vero dossier preminente in agenda, l’Iran. E su questo andrà risolto un nodo molto complicato, perché la nuova Amministrazione Usa è divisa tra war fighters e war enders. Marco Rubio, nuovo segretario di Stato, sull’Iran dice le cose giuste (tolleranza zero verso gli Ayatollah, ndr) ma la domanda è: chi fa che cosa?»

In Israele si torna a parlare con insistenza di strike preventivi per fermare il programma nucleare iraniano entro il 2025.

«Mi aspetto che prima Trump provi a generare una qualche forma di sforzo diplomatico, a modo suo ovviamente. Il regime d’altra parte ha subito colpi pesantissimi sia sul suo territorio che sui suoi proxies, dalla Siria al Libano, ed è profondamente indebolito. Da un lato c’è il presidente Pezeshkian che dice “Dobbiamo parlare con Trump”, dall’altro i duri del regime gli ricordano che quello è l’uomo che ha fatto assassinare il Generale Qassem Soleimani. Quindi vediamo che accade: o si siedono al tavolo o salterà tutto e si aprirà una finestra per agire, e per tentare di portare il regime in ginocchio».

Iran a parte, c’è chi sostiene che in cambio della tregua a Gaza Netanyahu possa aver chiesto a Trump mano libera sulla Cisgiordania, dove oggi è stata lanciata una vasta operazione.

«Escludo che sia stata data luce verde all’annessione o qualsiasi cosa del genere. È vero però che Trump tra i primi atti ha firmato anche la revoca delle sanzioni sui coloni violenti della zona. Ma credo che il nodo cruciale dell’interlocuzione abbia a che fare piuttosto con l’accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Quel percorso si è bloccato dal 7 ottobre, ma i sauditi ora potrebbero avere voglia di riprendere la strada, e certamente ce l’hanno gli israeliani. Questa è la base dell’intesa tra Trump e Netanyahu».

I sauditi hanno sempre detto però di essere disposti a riprendere quel filo solo in presenza di un impegno di Israele a riconoscere uno Stato palestinese.

«Lo tradurrei in qualcosa di meno ambizioso: penso sarebbero disposti ad accettare un’indicazione che Israele non chiude la porta a quell’opzione, che la lascia aperta verso quel corridoio pur senza percorrerlo. Probabilmente si può trovare il linguaggio diplomatico per accontentare entrambi».

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