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I ristoranti e il vino senza alcol: «Così si perde l’essenza stessa della bevanda»

ristoranti vino senza alcol 1
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C'è chi si dota di etilometri e chi pensa a una navetta per i clienti. Joe Bastianich: «La forza dei vini italiani è il territorio. E gli assaggi che ho fatto fino a ora non sono stati affatto entusiasmanti»

«Stiamo pensando a una navetta per i nostri clienti. Scelta costosa, ma meglio che vedere i tavoli senza bottiglie». A dirlo è Roberto Paddeu, gestore del ristorante Frades di Milano, uno dei tanti esercizi commerciali che hanno visto evaporare gli ordini di alcol dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice della Strada. Il locale ha anche gli etilometri, che però non usa nessuno «perché si preferisce evitare. Questi primi venti giorni dell’anno hanno evidenziato un calo delle vendite dell’alcol. Ogni settimana analizziamo i report e i numeri parlano chiaro. Ma un calo del 10% nelle vendite di bevande in Sardegna potrebbe tradursi in una perdita di 150-200 mila euro».

I vini dealcolati

Paolo Castellati, segretario generale dell’Unione Italiana Vini, dice però oggi al Messaggero che «finalmente possiamo produrre vini dealcolati in Italia. Entro l’anno, prevediamo 50 impianti attivi. È una rivoluzione. Il 21% degli italiani è interessato ai vini dealcolati, una percentuale che sale al 28% tra i giovani tra i 18 e i 34 anni». Intanto i ristoratori si dividono. A Roma Alberto Martelli del ristorante La Carbonara a Campo dei Fiori dice che «prima a pranzo un bicchiere era quasi la norma. Ora? Zero. E le famiglie che ordinavano due bottiglie si fermano a una». Mariella Di Giacomo, dal suo “Puro Bistrot” nel Quartiere Africano, sostiene di vedere il calo «come un’opportunità». Puntando su bevande analcoliche come la rapa rossa fermentata con timo e pepe nero. «Non sono vino, ma danno quella sensazione di familiarità che i clienti cercano».

I produttori

Roberta Ceretto, produttrice dell’omonima cantina ad Alba, spiega che «le regole in sé non sono cambiate, ma le multe sono diventate molto più pesanti. Questo spaventa le persone e le porta a bere meno, per timore delle conseguenze». Ma il vino senza alcol non la convince: «Come si può chiamare Barolo qualcosa che non ha nemmeno alcol? È un vino che si gusta con calma, in momenti di tranquillità, e non è certo pensato per eccessi. È un prodotto che racconta un territorio e una storia. Non riesco a immaginare un abbinamento serio tra un cibo e un calice senza alcol». E ancora: «Quello che vedo è che i ragazzi si organizzano: taxi, guidatori designati, trasporti condivisi. Questo è positivo, ma resta il fatto che qui senza macchina non si va da nessuna parte».

Joe Bastianich

In un’intervista a La Stampa il ristoratore Joe Bastianich è ancora più severo: «È un vino che non è nemmeno del tutto vino. Perché a livello tecnico l’alcol è elemento essenziale anche ai fini della conservabilità e dell’invecchiamento».

Togliendogli alcol il vino perde «la sua essenza stessa. Se già nella definizione storica, ormai entrata nella leggenda della letteratura enologica – quella della guida Vini d’Italia del 1988 – il vino è descritto come una “soluzione idroalcolica ottenuta attraverso la fermentazione degli zuccheri contenuti nell’uva”, è chiaro che se ne tolgono elementi costitutivi. Inoltre, il vino dealcolato è particolarmente energivoro, richiede una doppia lavorazione, una per la fermentazione alcolica, l’altra per rimuovere l’alcol, consuma ingenti quantità di acqua e perde per strada un sacco di prodotto. Insomma, nasce per far bene alla salute, ma finisce per essere un drink altamente zuccherino e dal notevole impatto ambientale, è concepito in sottrazione, ma di fatto si deve produrre due volte. Per ottenere qualcosa che meglio sarebbe chiamare succo d’uva di ritorno».

La tecnologia

Secondo Bastianich «togliere l’alcol e lasciare invece acidità e tannini, con particolari filtri vuol dire anche intervenire con la tecnologia. Procedimenti molto costosi, appannaggio della grande industria. Che rischia dunque anche in questo caso di sovrastare la biodiversità. Ed è un peccato perché la forza dei vini italiani è il territorio. E gli assaggi che ho fatto fino a ora non sono stati affatto entusiasmanti».

La ricerca però «sarà uno sprone al settore vitivinicolo, più propenso all’idea dell’etichetta artistica come simbolo di riconoscimento che come strumento informativo per il consumatore. Il vino dealcolato spalanca il dibattito sul futuro della viticoltura. I viticoltori saranno chiamati a trovare nuove forme di comunicazione e di educazione al bere consapevole, necessarie nel mutato contesto socioculturale. Potrebbero cambiare strategia e cavalcare la sfida, come ai tempi della querelle tra vini tradizionali e moderni, che alla fine si rivelò un’operazione win-win: gli appassionati assaggiavano sia gli uni, sia gli altri, per il gusto del confronto».

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