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Trump sui dazi le spara e basta: nei documenti ufficiali (per ora) non c’è traccia delle misure

22 Gennaio 2025 - 19:22 Gianluca Brambilla
trump ordini esecutivi
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Nel provvedimento, il tycoon si limita a incaricare le agenzie federali di avviare un'indagine sui persistenti deficit commerciali e le pratiche valutarie di altri Paesi

Minacce di dazi sulle importazioni dall’estero, sgravi fiscali per tutti (comprese le multinazionali) e retromarcia sulla transizione ecologica. La raffica di ordini esecutivi firmati da Donald Trump nel suo primo giorno alla Casa Bianca testimoniano un cambio di direzione netto rispetto alle politiche del suo predecessore Joe Biden. A giudicare dai provvedimenti adottati, l’economia e le politiche energetiche sono senza dubbio in cima alle priorità della nuova amministrazione americana, che tira dritto sull’approccio America First sbandierato a più riprese in campagna elettorale. «L’età dell’oro comincia ora. Il nostro Paese fiorirà e io metterò sempre l’America al primo posto», ha assicurato Trump nel suo discorso d’insediamento.

La strategia di Trump sui dazi

Per quanto riguarda le politiche commerciali, la nuova filosofia della Casa Bianca si traduce in una semplice parola: dazi. Prima di insediarsi nello Studio Ovale, Trump ha minacciato di imporre tariffe su tutte le importazioni dall’estero, comprese quelle che provengono da Paesi alleati. Un’intenzione ribadita anche nell’ordine esecutivo America First Trade Policy, che però non introduce davvero nuovi dazi. Nel provvedimento, il tycoon si limita a incaricare le agenzie federali di avviare un’indagine sui persistenti deficit commerciali e le pratiche valutarie di altri Paesi, così da «identificare eventuali pratiche commerciali sleali e raccomandare azioni appropriate per porvi rimedio». Allo stesso tempo, Trump chiede al segretario del Tesoro di progettare, costruire e implementare un External Revenue Service per riscuotere tariffe, dazi e altre entrate legate al commercio estero».

Nei documenti ufficiali, insomma, non c’è traccia di nuovi dazi, nonostante il presidente americano, anche dopo la firma degli ordini esecutivi, abbia continuato a ventilare l’ipotesi parlando con i giornalisti. «Stiamo valutando dazi del 10% sulla Cina sulla base del fatto che stanno inviando fentanyl in Messico e Canada», ha rivelato Trump nel suo secondo giorno alla Casa Bianca. Le tariffe, ha precisato il tycoon, scatterebbero il 1° febbraio e si applicherebbero anche agli stessi Canada e Messico, nel loro caso con una percentuale ancora maggiore: 25%. Non è detto, avverte la Cnn, che gli annunci di Trump si tradurranno in misure vere e proprie. Secondo l’emittente americana, il team economico del tycoon sta ancora valutando la strategia migliore: imporre tariffe già dal 1° febbraio e aumentano di importo nel tempo oppure posticipare l’entrate in vigore dei dazi per alcuni mesi, così da convincere le controparti a sedersi attorno a un tavolo e ridiscutere gli accordi commerciali. I consiglieri di Trump, scrive sempre la Cnn, stanno discutendo su quale sia la strategia legale migliore da adottare per giustificare l’introduzione di nuovi dazi, soprattutto in vista delle cause che potrebbero essere presentate dai Paesi o dalle aziende più colpite.

Cina, Messico, Canada ed Europa nel mirino della Casa Bianca

Tra i primi Paesi interessati dai dazi ci sarà con ogni probabilità la Cina, con Trump che ha ipotizzato l’introduzione di nuove tariffe del 10% a partire dal 1° febbraio. Una decisione basata sul sospetto che Pechino stia «inviando Fentanyl in Messico e Canada». E proprio questi ultimi due Paesi potrebbero essere le successive “vittime” della politica protezionistica della Casa Bianca, che ha ipotizzato tariffe del 25% (sempre a partire dal 1° febbraio). «Il Canada risponderà fermamente», ha promesso il premier canadese Justin Trudeau, mentre la sua omologa messicana Claudia Sheinbaum invita a «mantenere la calma».

Ma ad agitarsi in vista di possibili dazi sono anche i Paesi europei. «Ci trattano molto, molto male. Quindi dovranno pagare i dazi», ha detto il nuovo inquilino della Casa Bianca. Lo spettro di una guerra commerciale tra Bruxelles e Washington, insomma, potrebbe essere ben più concreto di quanto sembrasse fino a pochi mesi fa. Al punto che sono gli stessi vertici comunitari ad alzare gli scudi e prepararsi al peggio. «Siamo entrati in una nuova era di dura competizione geostrategica. L’Europa deve cambiare marcia», ha avvertito la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. A darle man forte, poche ore più tardi, è Christine Lagarde, presidente della Bce, secondo cui Bruxelles deve «prepararsi» ai dazi di Trump e avere ben chiaro «come rispondere».

Più petrolio e gas, niente rinnovabili

Tra i dossier su cui si registra la rottura più netta dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca c’è sicuramente l’energia. Sotto la presidenza Biden, gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione di gas e mantenuto il primato mondiale nella produzione di petrolio, ma hanno anche spinto l’acceleratore sulla transizione verso le fonti rinnovabili, grazie al maxi-pacchetto di investimenti dell’Inflation Reduction Act, approvato dal Congresso nel 2022. Il neo presidente americano, aperto negazionista dei cambiamenti climatici, ha cercato di frenare questo processo già nelle sue primissime ore trascorse dentro lo Studio Ovale.

Con un ordine esecutivo, Trump ha ordinato lo stop a tutti i progetti di eolico offshore, ossia quelli in cui le turbine sono posizionate in mare aperto e non sulla terraferma. Contestualmente, ha dichiarato un’«emergenza energetica nazionale» per la prima volta nella storia degli Stati Uniti. Una mossa che gli consente di sospendere alcune norme ambientali e accelerare il rilascio di nuovi permessi per l’estrazione di combustibili fossili. Con altri ordini esecutivi firmati nel suo primo giorno, Trump ha revocato il divieto di trivellazione in gran parte delle acque di competenza federale e ha autorizzato i progetti di estrazione di petrolio e gas nelle zone disabitate dell’Alaska.

Sul fronte delle politiche energetiche la strategia di Trump è chiara: massimizzare la produzione a livello nazionale così da riempire le riserve e vendere all’estero tutto ciò che avanza. In particolare, il tycoon vuole aumentare sensibilmente le esportazioni di gas verso l’Europa, così da «riequilibrare» – dal suo punto di vista – le relazioni commerciali. Il grande paradosso del piano di Trump, fa notare il New York Times, è che la sua promessa di «sprigionare l’energia americana» vale soltanto per alcune forme di energia. Fonti pulite e rinnovabili, come il solare e l’eolico, non trovano infatti alcuno spazio nell’agenda della nuova amministrazione americana, che tra i suoi primi atti ha anche ritirato gli Stati Uniti dallo storico accordo di Parigi sul clima firmato nel 2015 (qui un resoconto più dettagliato di tutti gli ordini esecutivi ambientali e climatici firmati da Trump).

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DREAMSTIME/Charlieb34 | Una raffineria di petrolio a Washington DC

Elon Musk e il dipartimento “ad hoc” per tagliare la burocrazia

Con un ordine esecutivo firmato il 20 gennaio, Trump ha anche istituito ufficialmente il Doge, Dipartimento di stato per l’efficienza governativa. A guidarlo, come annunciato, sarà il fedelissimo Elon Musk, amministratore delegato di Tesla e SpaceX. Il nuovo dipartimento – a cui lavorerà, senza alcuna retribuzione, un team di imprenditori provenienti soprattutto dal settore tecnologico – non avrà alcun potere diretto per tagliare le spese e la burocrazia, ma potrà fornire raccomandazioni al Congresso affinché lo faccia. Ufficialmente, l’ordine esecutivo firmato da Trump dice che lo scopo del nuovo ente sarà «modernizzare la tecnologia e i software federali per massimizzare l’efficienza e la produttività del governo». In realtà, le intenzioni di Trump e Musk sembrano andare ben oltre l’innovazione tecnologica. L’obiettivo del Doge sarà «eliminare le normative eccessive, tagliare le spese inutili e ristrutturare le agenzie federali», aveva promesso il tycoon prima di insediarsi alla Casa Bianca. Mentre Elon Musk aveva scritto in un articolo pubblicato sul Wall Street Journal che puntava a tagliare 500 miliardi di dollari di costi federali annui.

Stop alla tassa globale sulle multinazionali

Sempre sul fronte delle politiche economiche, Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti dall’accordo siglato nel 2021 per istituire una tassa minima globale del 15% su tutte le multinazionali. Quell’intesa, si legge nell’ordine esecutivo pubblicato sul sito della Casa Bianca, «limita la capacità della nostra nazione di emanare politiche fiscali che servano gli interessi delle aziende e dei lavoratori americani». Il provvedimento di Trump evoca «pratiche fiscali estere discriminatorie» e dice che «le aziende americane potrebbero trovarsi ad affrontare regimi fiscali internazionali di ritorsione se gli Stati Uniti non rispettassero gli obiettivi della politica fiscale estera».

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EPA/Allison Dinner | Elon Musk durante un evento alla Capitol One Arena, 20 gennaio 2025
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