Gli esperti e il caso della neonata rapita a Cosenza: «Rosa Vespa e Acqua Moses vittime di regressione patologica infantile»
Nella mente di Rosa Vespa e Acqua Moses, che hanno rapito la neonata di un giorno Sofia Cavoto nella clinica Sacro Cuore di Cosenza, «ci può essere un desiderio frustrato di genitorialità che sfocia in ossessione. O il bisogno di dominio. Oppure, ancora, di possesso su un bimbo, che non ha nulla a che fare con l’amore per un figlio». A spiegarlo oggi è il professor Vittorino Andreoli in un’intervista al Corriere della Sera. Lo psichiatra e neurofarmacologo dice che nel caso «mi pare emerga un’immaturità che sfocia in una visione distorta della realtà». In cui sembra esserci regressione infantile: «Cambiare il vestito della bimba da rosa ad azzurro per fingere che fosse il maschio atteso richiama il gioco delle bambole».
Regressione patologica
Ma che qui assume una dimensione patologica: «Non è una fantasia innocua, ma un’ossessione che porta a gesti estremi, come un rapimento, in cui non si pesa il danno che si infligge sia ai rapiti sia ai genitori naturali». Il contesto sociale, spiega l’esperto, conta, «in una società che lega il valore della donna alla maternità». Ma in questa storia «credo che pesi di più la personalità: quando si parla di disturbi di personalità, le condizioni economiche o sociali diventano secondarie». Secondo Andreoli ci possono essere segnali di patologie: «Queste coppie potrebbero avere una pulsione a parlare ripetutamente di gravidanza o educazione di figli. La persistenza e, ancor più, la finzione sono segnali chiari di disagio».
Un progetto delirante
Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, è presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e docente universitario, dice a La Stampa che «quale dinamica si sia sviluppata all’interno di questa coppia per costruire un progetto così delirante al momento non possiamo saperlo, ma andrà collocata anche nella realtà culturale e affettiva. Parliamo di fatti drammatici che stravolgono la vita di varie persone e penso anche all’angoscia che non abbandonerà più la madre della bambina rapita». In questi casi ci si ritrova incapaci di elaborare una difficoltà «e si sviluppa una sorta di fantasia di rimettersi dentro questo obiettivo. La fantasia non rimane tale, ma diventa un delirio. Ognuno si costruisce un proprio delirio di onnipotenza che forse aiuta a creare anche quello che non puoi avere e non esiste. Mi colpisce questa società dove, sempre più spesso, la vita privata diventa pubblica».
Un’idea condivisa
E quindi «un progetto diventa condiviso: non solo con gli intimi, ma anche sui social con una pornografizzazione di tutte le esperienze. Allo stesso tempo, si fatica a tollerare il dolore. Una società algofobica che non è abituata alla rinuncia, come quella di non poter avere un figlio, si rivela incapace di elaborare le circostanze dolorose, la caduta degli aspetti ideali». Quella di Rosa Vespa e Acqua Moses è «una messa in scena che ricorda il giovane adulto che non riesce a dare esami, ma dice in giro che si sta laureando. Inizia a creare un sistema di falsità da cui è difficile uscire. C’è chi si suicida, chi ha il coraggio di ammettere di essersi inventato tutto. Posso ipotizzare sia accaduto così nel caso di Cosenza».
La coppia
In questi casi la coppia diventa più pericolosa del singolo «perché se uno è dentro un malessere individuale magari lo comunica a un altro, ma qui – probabilmente – il malessere ha trovato forma in un progetto condiviso. E allora hai due possibilità: sparire per sempre ed essere smascherato oppure uscire e prenderti un bambino. Da tempo sostengo l’urgenza di una alfabetizzazione emotiva degli adulti e non dei ragazzi. Quando c’è un dolore l’azione diventa sempre violenta. Verso di sé o verso l’altro. In questo caso la violenza è arrivata a portar via un neonato alla sua mamma».