Marco Cappato: «Io, da chierichetto a senza Dio. E da ragazzino avevo un’acne fortissima»
Marco Cappato è il protagonista di «Da Marco a Marco», lo spettacolo che ripercorre la sua vita politica e il suo impegno, a partire dalla conoscenza di Marco Pannella. Dice che sul palco «mi sono commosso profondamente, soprattutto quando parlavo del giorno in cui mi hanno assolto nel processo per il caso di Dj Fabo. Quello stesso giorno morì mia madre e non feci in tempo a dirle dell’assoluzione», dice in un’intervista al Corriere della Sera a firma di Giusi Fasano.
La famiglia
Racconta di aver avuto «una famiglia che mi ha fatto respirare la sensibilità per i diritti. Papà era segretario del partito Repubblicano a Monza, mamma era iscritta al partito Radicale. Avevo uno zio socialista… Io ero più sul filone anarchico. Non le dico da ragazzo i dibattiti interminabili a tavola a Natale, a Pasqua…». Da ragazzo era timido: Da ragazzino avevo un’acne fortissima che diventò un complesso. Adesso ci rido, ma a 14 anni non è divertente. Ho fatto anche il chierichetto, ma ho resistito poco; per me la fede era occuparsi di chi era in miseria. La povertà mi sembrava una condizione insopportabile… Nell’arco di pochi mesi ero un senza Dio, e verso i 15-16 anni i miei pensieri erano tutti per l’anarchia; non come cancellazione del potere, che è un’utopia ed è perfino sbagliata, ma come sistema che prevede un potere al minimo indispensabile. Solo quello strettamente necessario».
La figlia
Ha una bambina di sei anni che si chiama Vittoria. «Ho il privilegio di lavorare per quello in cui credo e ho il privilegio di gestire il mio tempo che mi consente di stare con lei», dice. Dice di aver imparato molto da Marco Pannella «umanamente e politicamente, ma negli ultimi anni eravamo distanti, avevamo perso sintonia. Quando è morto ero a un banchetto a raccogliere firme. Ho pianto molto». La causa scatenante delle sue battaglie sul fine vita è stata invece «Piergiorgio Welby. Avevo 35 anni quando, a Ferragosto del 2006, mi chiese di andare da lui. Stava malissimo, non ce la faceva più. Era già un attivista noto dell’Associazione Coscioni e io ero parlamentare europeo. Mi disse: voglio morire, tu devi andare in Belgio e procurarti il farmaco per l’eutanasia, fa come caz… vuoi ma procuratelo. Arrivai a due medici belgi che vennero a verificare che esistessero le condizioni previste dal Belgio».
La battaglia in Italia
Poi cambiò idea: «Gli dissi: puoi avere quello che hai chiesto ma valuta anche se possiamo farne una battaglia pubblica per l’Italia. Lui ci pensò e decise di farlo con un video-appello per il presidente della Repubblica, che all’epoca era Napolitano. E lì successe il putiferio…». Che scoppiò «perché Napolitano rispose a Welby. Ricordo la sua frase chiave: “L’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio del Parlamento”. Fu un’esplosione. Ripresero la notizia perfino la Cnn e Al Jazeera . I giuristi attivarono un dibattito che diventò imponente. Tutti a parlare del suo diritto, del suo corpo, della somministrazione del farmaco, ma nessuno disse: lo faccio io. Finché non arrivò la mail del dottor Mario Riccio».
Le autodenunce
Adesso la sua battaglia è questa: «Io ne ho accompagnati tre ma mi sono autodenunciato dieci volte come responsabile legale dell’organizzazione Soccorso Civile, che fornisce aiuto diretto a queste persone. Al momento per l’aiuto ai malati in Svizzera siamo indagati in 13 e sono aperti 7 procedimenti penali. Ognuno di noi rischia 12 anni di carcere». E descrive la morte «come la fine delle nostre esistenze, almeno nelle dimensioni dello spazio e del tempo. Una brutta notizia, che però può aiutare a vivere più intensamente».