Monica Giorgi e quella volta che diede del fascista a Panatta: «Era l’unico maschio con cui si poteva parlare»
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Monica Giorgi, classe ’46, livornese e anarchica, è un ex talento del tennis italiano. Nel 1980 è stata arrestata e condannata per associazione sovversiva. Un capo d’imputazione di cui oggi va fiera: «Me lo tengo stretto, non discuto. È quello che volevo fare: sovvertire il potere. Con gli anarchici di Livorno, i volantini, i discorsi, l’attivismo: nulla più. Oggi non sarei così testarda: la vita mi ha cambiata. Non direi più ad Adriano (Panatta, ndr) che è un fascista perché ha scelto di andare a giocare la Davis da Pinochet», dice in un’intervista al Corriere della Sera.
Stocastica
Oggi Giorgi vive a Giubiasco, distretto di Bellinzona. Ma le sue radici sono in Toscana: «Eccome! Livorno è la mia carne, il mio sangue, le mie parole. Mi chiedo se dopo tanti anni in Svizzera dovrei tornarci a morire. Dell’Italia mi attraggono gli odori, i sapori, le scritte sui muri. Ci vado volentieri, da quando le mie pendenze con la giustizia sono risolte. Però lascio anche che le cose accadano». Oggi dice che «le cose più belle sono quelle che capitano. Sono stocastica, aleatoria: qualcosa succederà. Preferisco essere illusa, piuttosto che pregiudizievole. Certo rischio la delusione, ma è da lì che scaturisce consapevolezza. Il processo mi ha fatto scoprire la mia dabbenaggine: siccome sono presuntuosa, ci sono passata sopra. Vede, io penso in livornese, che non è una lingua, è un vernacolo: viene da verna , schiavo, e lo schiavo subisce».
I primi guai
I primi guai li ha avuti per aver indossato a Johannesburg, in pieno apartheid, una T-shirt con un nero e una bianca che fanno l’amore. «Indegna di rappresentare l’Italia, scrissero nella lettera con cui mi fermavano un anno. Ci sono cose che sono sfuggite di mano alla gioventù dell’epoca, ma eravamo pieni di entusiasmo. Da ragazza mi piaceva provocare il potere, a 79 anni invece lo comprendo: lo vedo come parte necessaria per cui certe cose devono finire o cominciare. Non mi giudico: ho fatto quello che mi sentivo», dice a Gaia Piccardi. Con Lea Pericoli imbrattò di escrementi lo yacht del vicino: «Lea lo detestava: fu un gesto d’amicizia. La vera ingiustizia di quegli anni è la morte di Pinelli che vola giù dalla finestra della Questura di Milano. Quello è stato il mio ’68. Lea ed io eravamo agli antipodi solo all’apparenza. La divina e Monicaccia, come mi chiamava lei: che coppia».
L’unico maschio
«L’unico maschio con cui potevo parlare era Panatta. Quando giocavamo il doppio insieme e ci facevano un lob, fermava la palla: alt, qui lo smash lo faccio solo io!», dice. Sostiene di aver preso «da mio padre l’estroversione, a costo di fallire per troppa esuberanza. Da mia madre l’essere parca: non tirchia, parca. È lei, con le sue imperfezioni e i nostri conflitti, ad avermi autorizzato a essere libera: se fosse stata perfetta, non me ne sarei mai andata. Invece si lamentava di me, terzogenita dopo due gemelle, in continuazione. Si è resa insopportabile: un dono. Quando lessi “L’ordine simbiotico della madre” di Luisa Muraro fu un’illuminazione».
E su Jannik Sinner dice: «Sì, questa generazione di giocatori mi ha riavvicinata al mio sport. Però non gioco più: mi fanno male le ginocchia. I miei preferiti sono Federer e Alcaraz, che è molto più divertente di Sinner. Adesso non gli serve per vincere, ma Jannik dovrà imparare a scendere di più a rete». Il suo grande amore è stato «Manrico (Cerruti, ndr), un uomo bellissimo che mai avrei immaginato potesse innamorarsi di uno sgorbio come me. E Maddalena, incontrata in carcere: con lei c’era molto più del sesso, che in una relazione non è necessario».