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Dazi all’Europa? La versione di FdI: «Trump ha le sue ragioni, mezza Europa compra il gas liquido da Putin»

03 Febbraio 2025 - 19:11 Simone Disegni
donald trump dazi giorgia meloni europa italia
donald trump dazi giorgia meloni europa italia
Mentre la premier è a Bruxelles da Roma Foti e Procaccini giustificano le minacce dell leader Usa: «Macron faceva il piccolo Napoleone e ora compra gas dalla Russia»

Trump è matto? Ha dato di testa e vuole mandare a gambe all’aria l’economia mondiale? E magari pure le storiche alleanze dell’America? Nel mondo, e di certo in Europa, c’è chi lo sospetta. E da questo weekend, quando il presidente Usa è passato dalle parole ai fatti imponendo dazi a Canada e Messico (fino a prova contraria), è entrata in modalità panico. Non così il governo Meloni. Che invece, almeno a parole, ostenta calma e sangue freddo. Di più, gli alti dirigenti di Fratelli d’Italia sono attivamente impegnati a spegnere ogni incendio smussando i toni e perfino giustificando il senso delle sparate di Trump. Rovesciando se mai la “colpa” sui governi europei meno amici. Più dazi per tutti, presto anche per l’Italia e l’Europa ? «Prima vediamo se arrivano davvero e su che cosa», predica prudente il ministro degli Affari europei Tommaso Foti, mentre la “titolare”, Giorgia Meloni, è impegnata a Bruxelles in un delicato Consiglio europeo. Seduto tre sedie più in là al tavolo di un convegno al Senato, si spinge volentieri oltre il luogotenente di Meloni in Ue, Nicola Procaccini. «Io mi metto nei panni di Trump, arrivo al potere e scopro che l’Ue sta incrementando gli acquisti di gas liquido… Dagli Usa? No, dalla Russia! Da un lato spendiamo per sostenere la difesa armata dell’Ucraina e dall’altro finanziamo la guerra che le fa Vladimir Putin?», affonda il colpo Procaccini. Che tiene a fare nomi e cognomi dei “colpevoli” di questo presunto tradimento. «Notate bene, non è l’Italia a muoversi in questa direzione, noi abbiamo fatto di tutto per chiudere i rubinetti dalla Russia. Il primo Paese a rifornirsi da lì ora invece è la Francia di Macron, proprio lui che faceva il “piccolo Napoleone” dicendo che dovevamo mandare i soldati europei a combattere in Ucraina». Appena dietro, nota ancora malizioso Procaccini, ci sono il Belgio dove hanno sede le istituzioni Ue e la Spagna guidata dai «focosi socialisti» di Pedro Sanchez e Teresa Ribera.

Un ponte (di denaro) con l’America

Attacchi a parte, dunque, la strategia del governo Meloni di fronte a dazi ed altre minacce trumpiane è chiara: accreditarsi come interlocutore n° 1 della nuova Amministrazione Usa, attendere, capire, trattare. «Sento che per qualcuno il problema sarebbe che Meloni è andata due volte da Trump, rompendo il presunto “fronte europeo”. Ecco, invece proprio questo suo ruolo può essere un elemento di moderazione», argomenta Foti, che da due mesi esatti ha preso il posto di Raffaele Fitto. La scommessa del “ponte” italiano tra Ue e Usa è lanciata, insomma: secondo alcuni retroscena la premier si starebbe spendendo in prima persona per agevolare contatti diretti tra Donald Trump e Ursula von der Leyen. Ma in concreto, quali sono gli elementi che una Meloni in veste di “negoziatrice in capo” metterebbe sul tavolo con Trump per dissuaderlo dall’applicare tariffe anche ai Paesi Ue? Lo suggerisce ancora Foti richiamando proprio le discussioni in corso sugli investimenti in difesa al centro del vertice Ue di queste ore. «L’Europa nell’ambito della politica di difesa potrebbe rivolgersi agli Usa per acquisire quei fattori di produzione in grado di compensare le esportazioni Ue». Tradotto: chi ben conosce Trump sa che la sua strategia consiste nello sparare alto per costringere rivali e partner a negoziare, e il suo vero obiettivo è spingere l’agenda America First. Il che significa che rispondere adeguatamente alle sue mire sta nel dargli, almeno in parte, ciò che davvero vuole: più acquisti di prodotti americani. Non solo gas liquefatto, come già aveva ipotizzato von der Leyen, ma anche armi. Perché, è l’implicita interpretazione, quando Trump dice agli europei che devono investire il 5% del Pil in difesa sta dicendo sì che gli Usa non ne possono più di sostenere da soli o quasi il peso della Nato, ma anche che vogliono nuove e ricche commesse dagli alleati per la loro industria militare.

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