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«Costretti a partire per l’Italia dalla “polizia” di Almasri, ma volevamo stare in Libia». Il dramma dei migranti finiti in Albania (e poi a Bari)

03 Febbraio 2025 - 22:40 Simone Disegni
migranti-almasri-libia-sbarchi
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Il paradosso di molti di coloro che sono stati spediti (per poco) a Shengjin: erano partiti sì, ma per lavorare in Libia. Sino al giorno della cattura. Il racconto alla delegazione Pd

Presi e trasportati come pacchi in giro per il Mediterraneo. È la storia di molti dei 49 migranti finiti – per poche ore anche questa volta – in Albania la scorsa settimana in esecuzione del progetto-bandiera del governo Meloni. Del peregrinare da una riva all’altra dell’Adriatico sappiamo tutto, così come dei relativi dissidi politico-giuridici: la magistratura annulla i trattenimenti decisi dal governo, quest’ultimo grida al complotto o quanto meno alla gamba tesa dei giudici. Per lo meno fino al prossimo 25 febbraio, quando la Corte di giustizia europea dovrebbe mettere finalmente un punto sulla vicenda e chiarire la fondatezza o meno della linea d’azione dell’esecutivo Meloni – basata sulla convinzione che spetti ad esso e nessun altro stabilire quali sono i Paesi sicuri per il rimpatrio. Ma il fatto è, si scopre ora dai racconti di chi ha parlato direttamente con alcuni dei migranti in oggetto, che quei trasbordi da e per l’Albania non sono stati gli unici imposti contro la loro volontà. Lo stesso viaggio che in origine doveva portarli in Italia, per molti di loro, era una dolorosa imposizione. Perché la loro scelta era un’altra: restare a vivere e lavorare in Libia. È la storia sorprendente che racconta a Open Toni Ricciardi, storico delle migrazioni che oggi è anche deputato Pd. In tale veste è stato tra i parlamentari che la scorsa settimana hanno presidiato l’area di Shengjin, il porto albanese dove approdano le navi della Marina militare italiana con a bordo i migranti. Da loro – «quelli con cui ci hanno consentito di parlare», precisa – ha ricevuto la sorprendente ricostruzione.

Il risveglio dell’orrore in Libia

«Nessuno di loro sapeva alcunché del “progetto Albania”, dunque la narrazione secondo cui questo sarebbe un deterrente alle partenze non sta in piedi», argomenta Ricciardi. «Ma c’è di più: nessuno di loro voleva proprio imbarcarsi verso l’Italia o l’Europa». Il loro progetto di vita era diverso, e la beffa più amara è che si era già realizzato, prima che tutto andasse perduto. «La maggior parte dei migranti con cui abbiamo parlato provengono dal Bangladesh. Loro progettavano di andare a lavorare in Libia. Ed è quello che hanno fatto, arrivandoci con volo regolare via Dubai». Costo tipico di un biglietto di sola andata per il Paese nordafricano considerato foriero di opportunità: 1.000 euro. Lì i migranti avevano trovato effettivamente lavori, anche dignitosamente retribuiti: come imbianchini, muratori o altro. È qui però che, anche nelle loro vite, si è disvelato il terribile “lato oscuro” della Libia. «Da un giorno all’altro improvvisamente sono stati prelevati dalla “polizia libica”. Qui sono stati picchiati, privati dei passaporti e messi nelle mani dei quella mafia che Meloni dice di voler combattere», riferisce e attacca Ricciardi. La distinzione tra apparati dello Stato e mafie che gestiscono i centri di detenzione per migranti è quanto mai labile, e parte dei migranti trasferiti verso e poi dall’Albania hanno riconosciuto, come noto, uno dei capi di questa paurosa zona grigia, quell’Osama Najeem Almasri espulso due settimane fa dall’Italia verso la Libia per ragioni di «sicurezza dello Stato».

L’aut aut dei trafficanti dopo le torture

Il seguito delle storie riferite dai bengalesi alla delegazione Pd, con tante di prove sui loro corpi, è quello drammatico raccontato ormai da centinaia e centinaia di altri. La porta di un malfamato centro che si chiude alle spalle, le botte, le torture. La richiesta di riscatto alle famiglie a casa, se necessario per «i più reticenti» con annessa videochiamata dell’orrore in diretta. Metodo sicuro: alla fine la somma viene raccolta e il denaro del riscatto arriva. Secondo un preciso “tariffario” che tiene conto delle nazionalità di provenienza e del lavoro svolto. Per i bengalesi strappati a lavori umili ma degni in Libia, di norma la tariffa s’aggira attorno ai 7mila euro. E qui viene l’ultima parte della saga, in questo caso meno nota. Perché agli immigrati che erano entrati regolarmente nell’ex Paese di Gheddafi per lavorarci, viene posto a questo punto un aut aut: «O torni a casa tua o ti mettiamo su un barchino verso l’Italia». Per chi ha sofferto l’umiliante percorso descritto, per lo meno nel caso di chi ha origini in Bangladesh, la prima opzione di fatto non è percorribile: avendo dilapidato tutto e costretto le loro famiglie a indebitarsi, rientrerebbero “marchiati” alla stregua di servi della gleba, spiega Ricciardi. È così che si trovano costretti a partire per l’Italia. Che non era proprio nei loro piani. Figurarsi l’Albania. «È così che, dopo aver rapito, torturato e depredato, le mafie che gestiscono la Libia usano la pressione migratoria come un’arma di ricatto sull’Italia. Ormai lo sappiamo. L’unica vera domanda cui Meloni deve rispondere è: che rapporti ha con quei vertici di potere?», conclude Ricciardi.

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