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Decreto Albania Bis: così il governo vuole trasformare Gjader e Shengjin in centri di rimpatrio per gli espulsi

L'idea della premier sulla scia di Trump e Guantanamo. I problemi con il protocollo firmato da Tirana. E i costi in crescita per la ristrutturazione dei Cpr. Mentre la legislazione europea potrebbe far fallire tutto

Come Guantanamo. Il governo Meloni vuole trasformare Gjader e Shengjin in centri di rimpatrio per gli immigrati già espulsi. Replicando così dal punto di vista legislativo in Albania i centri di permanenza e rimpatrio già presenti in Italia. Ma c’è una serie di problemi da risolvere che spingono in là nel tempo l’attuazione del piano. E quindi il decreto Albania Bis. Il primo, e il più importante, è che per farlo bisognerebbe cambiare l’intesa firmata da Giorgia Meloni ed Edi Rama. Anche nel punto che riguarda la giurisdizione e la polizia albanese. Poi c’è il problema della legislazione europea. Infine ci sono i costi delle ristrutturazioni dei due centri. Che dovrebbero essere adattati per rispondere ai criteri dei Cpr. Mentre così decadrebbe anche il (fantomatico, finora) effetto deterrente dei centri sugli sbarchi.

Come Guantanamo

L’idea di Meloni, che sembra ricalcare quella di Donald Trump su Guantanamo, la spiega oggi il Corriere della Sera: il governo è intenzionato a trasformare per decreto la destinazione d’uso dei centri dopo le bocciature dei trattenimenti. E in attesa della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La prossima udienza è in programma per la fine di febbraio, mentre per arrivare a una decisione si potrebbe dover attendere almeno fino ad aprile. E questo significherebbe lasciare le navi ferme e i centri vuoi per altri tre mesi. Una situazione che per Meloni è insostenibile prima di tutto politicamente. I migranti che si trovano già in Italia e che sono destinatari di un decreto di espulsione finirebbero quindi nei due centri. In previsione del loro rimpatrio. Intanto però c’è un problema piuttosto difficile da gestire. Come ricorda Repubblica, in Albania si vota l’11 maggio.

Il protocollo

E gli oppositori di Rama hanno già usato il protocollo tra Tirana e Roma per fare campagna elettorale. Spingendosi fino ad annunciare di volerlo stracciare. Tecnicamente la disdetta può essere unilaterale e il preavviso è di sei mesi. Per questo Rama non ha intenzione di toccare il protocollo. Anzi, dal suo staff fanno sapere al quotidiano che nessuna modifica al piano è alle viste. Gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del Viminale, che segue la gestazione del decreto, si sono riuniti ieri per analizzare i possibili problemi. In teoria il testo prevede che i centri possano essere utilizzati per le procedure di frontiera accelerate, come avviene oggi, cioè ospitando a tempo i migranti salvati dalla Marina in mare, «o per i rimpatri».

I problemi

Ma cambiando natura al progetto, potrebbero essere necessarie modifiche pratiche, da far rivotare in Parlamento, sia a Roma che a Tirana. Per esempio: senza cambiare il testo, i migranti sarebbero trasportati dall’Italia all’Albania, ma da lì non potrebbero essere rimpatriati. Dovrebbero tornare di nuovo in Italia. In più oggi nei Cpr non è previsto il trattenimento generalizzato. Mentre il protocollo prevede che chi si trova nei due centri non possa uscire. Il giurista Gianfranco Schiavone aggiunge che l’attuale direttiva Ue non prevede che «le procedure possano espletarsi fuori dal territorio europeo e i centri in Albania non lo sono, lì vige solo la giurisdizione italiana. Se il governo tentasse un azzardo dovrebbe dimostrare di garantire tutte le procedure previste nei Cpr italiani, a cominciare dalla prima che vieta il trattenimento generalizzato».

I costi

Infine, dice La Stampa, ci sono i costi. Per le ristrutturazioni dei centri servirebbero altri milioni. E quello italiano si configurerebbe come il primo centro per il rimpatrio realizzato fuori dai confini europei. Ma prima di realizzare un’ipotesi del genere bisognerebbe puntare a una revisione della direttiva europea sui rimpatri.

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