L’uomo accusato dall’ex hostess di stupro: «A mio figlio ho detto di mandare la Pec prima di fare la corte a una ragazza»
![raffaele meola barbara d'astolto](https://static.open.online/wp-content/uploads/2025/02/raffaele-meola-barbara-dastolto.jpeg)
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Raffaele Meola è l’uomo accusato dall’ex hostess Barbara D’Astolto di stupro. Nei giorni scorsi la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello di Milano che lo assolveva. Il suo avvocato è Ivano Chiesa. E oggi in un’intervista al Giornale racconta la sua versione dei fatti. «La decisione della Cassazione di rimandare in appello il processo contro Raffaele Meola è una follia. Se passa l’idea che prima di sfiorare una donna con le dita devi chiedere il consenso scritto finiscono le relazioni umane. Ho detto a mio figlio che se vuole fare la corte a una ragazza, prima le mandi una Pec e aspetti la risposta», dice a Hoara Borselli.
L’assoluzione? Perché non sussiste la violenza
Meola vuole smentire i giornali: hanno scritto che l’assoluzione è arrivata perché la donna aveva aspettato 20 secondi prima di intimargli l’alt. L’avvocato Chiesa chiarisce che il suo assistito è stato assolto perché non sussiste la violenza. Poi entra nel merito, smentendo per prima cosa il ritardo di due ore all’appuntamento fatidico: «La ricostruzione dei fatti è stata realizzata nella sentenza di primo grado sulla base delle dichiarazioni della signora. Siccome io sono stato assolto, non potevo contestare quella ricostruzione, perché faceva parte delle ragioni dell’assoluzione. Per questo non l’ho contestata. Ma non è la ricostruzione vera. Io però per ragioni giuridiche non posso sollevare la questione della attendibilità della signora in sede processuale».
Questioni giuridiche
In compenso, dice Meola, «l’accanimento mediatico nei miei confronti è spaventoso. Non credo che abbia precedenti. Sa quanti giornalisti mi hanno chiamato per conoscere la mia versione? Zero». La querela è arrivata quattro mesi dopo che aveva perso la causa con il suo datore di lavoro: «Posso mostrare i messaggi ostili nei quali si manifestano intenzioni di vendetta nei miei confronti di questa donna. Sono messaggi che mi ha mandato quattro mesi prima dell’episodio incriminato. Era furiosa con me perché stava perdendo la causa col suo datore di lavoro».
Quella sera, dice, «lei ha insistito quel giorno per vedermi. Ci siamo visti. Mi ha raccontato le sue vicende processuali e sindacali. Si è messa a piangere. Io l’ho rincuorata, le ho detto che in qualche modo saremmo riusciti a spuntarla, e come gesto di affetto ho poggiato le mani sulle spalle. Non ho fatto nient’altro. Nessun approccio sessuale. Neppure l’ombra. Poi siamo usciti insieme da quella saletta, abbiamo continuato a parlarci, ha aspettato che raccogliessi le mie carte, ci siamo salutati da buoni amici».
La confidenza
E ancora: «C’è una testimone che afferma di avere ricevuto una confidenza dalla signora che mi accusa, e che in questa confidenza non c’era nessun accenno ad assalti sessuali». E conclude: «Si è accertato che non c’è stata violenza. Lei ha interpretato quel mio gesto come una avance? Il tribunale – pur credendo alla versione della donna – ha accertato che comunque dopo quei venti secondi non è successo niente. Secondo la versione processuale c’è stato un approccio, un alt della donna, e un ritiro da parte mia. Non è così, perché l’approccio non c’è stato, comunque è accertato che non c’è stata violenza. Glielo ripeto non c’è stata alcuna violenza».