L’Alzheimer cantato da Cristicchi: racconto romantico o realtà? La neurologa: «Testo sincero ma i malati non sono bambini» – L’intervista
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Sono più di un milione le persone in Italia che vivono con una demenza, 600mila hanno conosciuto l’Alzheimer e insieme a loro migliaia di caregiver: il loro aiuto costante deve spesso fare i conti con un mondo, in molti casi familiare, totalmente stravolto da una malattia dura e complessa. L’eco di questa realtà è arrivata sul palco del Festival di Sanremo con una buona dose di dubbi e polemiche: uno dei pochi cantautori in gara, Simone Cristicchi, decide di mettere al centro la sua esperienza personale con una madre malata e ormai – a sua detta – tornata bambina. Quando sarai piccola ha suscitato non poche polemiche sul modo più giusto di raccontare e comunicare l’impatto di una malattia così crudele anche su chi vive attorno alla persona malata: l’accusa fondamentale, mossa da Selvaggia Lucarelli e poi ripresa più volte da chi racconta di aver vissuto la stessa esperienza del cantante, è quella di romanticizzare una condizione che, al contrario, si rivela spesso portatrice di rabbia e frustrazione. Open ha chiesto di fare luce sul tema alla dottoressa Zaira Esposito, responsabile del Centro per i Disturbi Cognitivi e Demenze dell’IRCSS Ospedale Sacro Cuore di Verona. Da più di 20 anni la neurologa lavora al fianco di pazienti malati di Alzheimer, coordinando anche un team di assistenza psicoterapeutica per famiglie e caregiver.
Dottoressa, crede che il testo di Quando sarai piccola racconti in modo troppo romantico la malattia?
«No. Quello che racconta Cristicchi è il frutto di un percorso, certamente lungo e duro, di accettazione della malattia. Esistono caregiver che riescono a raggiungere questo obiettivo, sicuramente complicato ma possibile. Per questo non vedo alcuna strumentalizzazione. II tema dei caregiver è argomento ovviamente molto complesso: stiamo parlando di persone che diventano quasi dei secondi malati, vittime anche loro seppur in maniera differente di questa malattia. Alla luce di questa complessità, non possiamo negare che alcuni di loro realtà, con strumenti formativi specifici, riesce a ottenere un senso di gratificazione dal rapporto con la persona cara malata di demenza e a raggiungere un legame simbiotico con lei tale che il rapporto diventa ancora più profondo di quanto non lo fosse mai stato prima. In questo modo diventa in grado anche di utilizzare e valorizzare canali di comunicazione che spesso vengono sottovalutati o considerati propri di una romanticizzazione: lo sguardo, piccoli gesti come una carezza. Trovo che menzionare questi strumenti significhi raccontare una realtà e non certo strumentalizzare una malattia».
Da più di vent’anni ha a che fare con le famiglie di persone malate, in quanto riescono a raggiungere l’accettazione totale di cui parla?
«Sono la minoranza, e chi non riesce ovviamente non è meno bravo di chi lo fa. Esistono prima di questo stato ideale di cui parliamo, sentimenti in cui i caregiver si imbattono che sono del tutto umani. In questi anni ho conosciuto la loro rabbia, il loro senso di impotenza e anche un certo senso di colpa. Non è raro trovare familiari, dai coniugi ai figli, che sentendosi soli e inadeguati, pensano di non fare abbastanza. E questo spesso perché si ritrovano a formarsi praticamente sul campo, in autonomia. Il problema principale dei sentimenti negativi che prevalgono sta anche nella percezione della persona malata di
Alzheimer ormai come qualcuno senza identità».
Non lo è?
«No. La stessa parola “demenza” che viene utilizzata può essere fuorviante nella percezione dei pazienti, considerati persone “senza mente”. La perdita delle funzioni cognitive, dalla memoria alla capacità di ragionare, non priva la persona di identità. Questo lo dico senza togliere nulla alla drammaticità della malattia: non bisogna cadere nello stigma della persona che non è più se stessa. Soprattutto ora che la diagnosi viene fatta molto precocemente, abbiamo tecniche ed esami di alto livello che permettono di intercettare la malattia nelle sue primissime fasi, con sintomi molto lievi. Le cose certamente diventano più complicate con sintomi più conclamati: in questa fase il paziente sperimenta difficoltà sempre maggiori e chi le sta vicino spesso tende a nasconderle o reprimerle. Nonostante arrivino a dimenticare, a disorientarsi, a non riconoscer e i luoghi in cui si trovano, seppur abbiano difficoltà ad esprimersi o a percepire la realtà in modo corretto, stiamo parlando di persone che presentano gli stessi identici sentimenti di quelle non malate. Per esempio sperimentano l’amore per il caregiver, elemento che non si perde fino alla fine della malattia. Esistono scatti fotografici eseguiti per cogliere le espressioni dei malati di Alzheimer, si vede la rabbia, la gratitudine per il piccolo gesto appena avvenuto, la riconoscenza, l’affetto, la frustrazione. Tutto questo vuol dire che un’identità c’è altrimenti non sarebbero in grado di provare nulla in modo così personale. E le assicuro che seguendo malati da tantissimi anni questo viene sperimentato giornalmente».
Spesso si racconta il “tornare bambini” dei malati di Alzheimer. In fondo anche il brano di Cristicchi richiama una certa “bambinizzazione”. È un approccio che ha conseguenze sulla percezione della malattia?
«Questo è l’aspetto su cui vorrei invece mettere in guardia. Il malato di Alzheimer non è un bambino e non va trattato come tale. Quando a fin di bene il caregiver rimprovera un’azione fatta in maniera non corretta, non è come se stesse riprendendo un bambino. Quest’ultimo ha gli strumenti per recepire la correzione attraverso un processo di apprendimento dagli errori, il paziente no, non è in grado di fare la medesima cosa. Ha meno risorse e possibilità. Non va corretto e rimproverato a meno che non faccia cose pericolose ovviamente. L’attività fondamentale deve invece mirare a mantenere quelle che sono le capacità invece rimaste e potenziare quelle. Senza accanirsi su capacità che non ci sono più, metodo che provoca inevitabilmente un senso di frustrazione anche per lo stesso caregiver. Questo ovviamente da un punto di vista tecnico. Dopodiché la bambinizzazione che spesso si compie è associabile allo stesso sentimento fisiologico della rabbia di cui parlavamo prima, è umano percepire quasi un’inversione di ruoli soprattutto se si parla di rapporto genitori figli. Formare i caregiver è importante anche per questo».
A proposito di formazione, qual è il livello di assistenza dei caregiver attuale in Italia?
«La maggior parte delle persone che si ritrovano ad assistere un malato di Alzheimer quando vedono la persona cara che comincia a non essere più quella di una volta o che diventa bisognosa di un’assistenza continua vanno incontro alla percezione di queste fasi della malattia come un peso insostenibile. A maggior ragione quando si verificano disturbi comportamentali di difficile gestione. Ci sono purtroppo ancora parti d’Italia molto indietro sull’assistenza psicologica per loro: le famiglie vengono lasciate in balìa di una patologia spesso enormemente complicata da gestire e metabolizzare. Realtà come il
nostro centro forniscono supporto anche ai familiari attraverso un team di neuropsicologi, l’obiettivo è quello di un percorso di formazione che accompagni le persone ad affrontare le diverse fasi della malattia del proprio caro in modo più costruttivo possibile. Ci rendiamo conto di quanto questo lavoro sia centrale soprattutto per il senso di solitudine innescato dalla nuova realtà con cui hanno a che fare, e soprattutto il sentimento di vergogna. Uno dei grossi problemi è la difficoltà che molti hanno di condividere parti della malattia del proprio caro per un senso di colpa e vergogna che limita e ostacola la reale condivisione con chi può essere d’aiuto. Per questo è importante parlarne e parlarne nel modo giusto».
Così torniamo al punto iniziale. Qual è il modo più giusto se esiste?
«Dal punto di vista più tecnico sicuramente parlarne facendo tanta informazione sulle realtà di assistenza che esistono. Centrale è anche non enfatizzare troppo le continue soluzioni sperimentate, per fortuna, dalla ricerca: molti dei nuovi farmaci di cui ciclicamente si parla sono somministrabili solo a poche persone e con disturbo lieve. Tanti pazienti arrivano da noi chiedendo costantemente informazioni su questo o quel farmaco di cui hanno sentito tanto parlare. Bisogna essere prudenti nel racconto medico. Sulla trattazione invece più mediatica direi che il vero strumento di strumentalizzazione è la polemica che si fa su un racconto piuttosto che il racconto stesso. Tornando al caso specifico di Cristicchi, credo sia un testo sincero».
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I testi delle canzoni
ACHILLE LAURO – Incoscienti giovani | BRESH – La tana del granchio | BRUNORI SAS – L’albero delle noci | CLARA – Febbre | COMA_COSE – Cuoricini | ELODIE – Dimenticarsi alle sette | FEDEZ – Battito | FRANCESCA MICHIELIN – Fango in paradiso | FRANCESCO GABBANI – Viva la vita | GAIA – Chiamo io, chiami tu | GIORGIA – La cura per me | IRAMA – Lentamente | JOAN THIELE – Eco | LUCIO CORSI – Volevo essere un duro | MARCELLA BELLA – Pelle diamante | MASSIMO RANIERI – Tra le mani un cuore | MODÀ – Non ti dimentico | NOEMI – Se t’innamori muori | OLLY – Balorda nostalgia | RKOMI – Il ritmo delle cose | ROCCO HUNT – Mille vote ancora | ROSE VILLAIN – Fuorilegge | SARAH TOSCANO – Amarcord | SERENA BRANCALE – Anema e core | SHABLO feat. GUÈ, JOSHUA e TORMENTO – La mia parola | SIMONE CRISTICCHI – Quando sarai piccola | THE KOLORS – Tu con chi fai l’amore | TONY EFFE – Damme ‘na mano | WILLIE PEYOTE – Grazie ma no grazie