Terremoto Trump, il generale Camporini: «Ucraina e Ue possono ribellarsi agli Usa e continuare da sole la guerra a Putin» – L’intervista
E se l’Ucraina e l’Europa si ribellassero agli Usa di Donald Trump, prendendo un’altra strada? Ora che il leader dal ciuffo biondo ha completato l’incredibile inversione a U dell’America su Kiev – dal sostegno alla freddezza, dalla malsopportazione sino all’abbandono e addirittura alla denuncia come responsabili della guerra subita – nulla pare più tabù. Ci si muove su un territorio nuovo, inesplorato. E idee che sino a ieri parevano impensabili, indicibili, ora si materializzano come dei lampi, input da inserire nell’equazione dell’Europa nuova, e pure in fretta, anche per chi sino ad oggi ha creduto eccome nel valore dell’alleanza transatlantica. Come Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa, oggi consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) oltre che responsabile Sicurezza e Difesa di Azione. Che parlando a Open evoca lo scenario clamoroso di un possibile niet di Europa e Ucraina al diktat che Trump e Putin stanno preparando, per continuare – da sole – la guerra di resistenza alla Russia.
Generale, russi e americani civettano a Riad, Trump fa sue le fake news di Mosca su Zelensky, taglia fuori l’Europa e scarica l’Ucraina. Quanto la spaventa questo scenario?
«Più che spaventare indica che siamo alla svolta della Storia: il rapporto transatlantico sta diventando evanescente, sta evaporando. In passato il dialogo fra le due sponde dell’Atlantico è stato a volte acceso, problematico, ma sempre al centro dell’attenzione dei governanti. Oggi sembra che a Washington di questa relazione non importi: l’Europa è vista come l’insieme di una serie di concorrenti, se non ancora di avversari, certamente non di amici che percorrono la strada insieme. Quel rapporto è finito, per lo meno con questo tipo di amministrazione. Dobbiamo prendere atto. Ora l’Europa è messa di fronte alle proprie responsabilità, che finora aveva spesso esorcizzato, ignorato, trascurato. È tempo di reagire».
Il più svelto a passare dallo stupore alla reazione, a costo di bypassare riti e strutture dell’Unione europea, è stato il presidente francese Emmanuel Macron. Scommessa visionaria o azzardo alla francese?
«Alcuni hanno giudicato la convocazione del vertice d’urgenza a Parigi come una reazione isterica. Secondo me invece è molto ben meditata e risponde a un disegno preciso, cioè quello di raccogliere insieme una serie di Paesi che condividono una certa visione politica per definire congiuntamente delle reazioni da porre in essere. E sbaglia chi pensa che non si sia ottenuto niente. Si è ottenuto invece una grandissima cosa: si è cominciato un percorso. Non possiamo pensare che questo percorso si possa esaurire in qualche ora o in qualche settimana, anche perché domenica si vota in Germania, e l’esito delle elezioni potrà essere determinante. Se dovesse emergere una grosse koalition, potrebbe essere il baricentro attorno a cui ricucire un rapporto privilegiato tra Francia e Germania, coinvolgendo poi da un lato la Polonia, dall’altro lato la Spagna e l’Italia, se riuscirà a sfuggire alle sirene di un “rapporto privilegiato” con gli Stati Uniti, che in realtà sarebbe un grimaldello per scardinare l’Europa. Se l’Italia riuscirà a superare questa sindrome allora potrà far parte a pieno titolo di questo nuovo percorso, perché ha le capacità operative, militari e politiche per farlo».
Dopo l’elaborazione del «lutto», si tratta quindi di elaborare un nuovo rapporto tra Europa e Stati Uniti: una post-alleanza?
«Un rapporto diverso, non necessariamente ostile, ma in cui si prende atto delle divergenze, che non sono formali o di ordine diplomatico, ma sostanziali. Di fatto l’ascesa al potere di Trump e l’atteggiamento ora preso degli Usa costituiscono la presa d’atto del fatto che con l’azione del 24 febbraio del 2022 la Russia ha accantonato definitivamente il concetto di diritto internazionale. Non esistono più regole. Se da allora gli Stati Uniti avevano cercato di richiamare a quest’esigenza, oggi le cose non stanno più così: siamo tornati a una situazione hobbesiana (secondo le teorie del filosofo inglese del 1500 Thomas Hobbes, ndr), di tutti contro tutti: vinca il più forte. A questo punto se l’Europa vuole avere un ruolo ed essere se non tra i protagonisti quanto meno tra i comprimari, deve necessariamente assumere una postura indipendente, il che vuol dire anche coesa».
Ma se si ripensa il senso del rapporto Europa-Usa andrà presto o tardi ripensata anche l’Alleanza che dal dopoguerra ha dato corpo a quel rapporto sul piano militare, la Nato. O no?
«Dal punto di vista formale l’Alleanza atlantica è giuridicamente molto solida, nel senso che è politicamente quasi impossibile per gli Stati Uniti uscirne: ci vuole una maggioranza di due terzi del Senato, non è francamente nelle ipotesi pensabili. Ciò detto, nulla vieterebbe a Trump di svuotare il significato della Nato: al di là delle dichiarazioni circa l’applicabilità o meno dell’articolo 5, gli sarebbe sufficiente ritirare alcuni assetti fondamentali dall’Europa. Se volesse, conoscendo il personaggio, potrebbe farlo dall’oggi al domani».
A quel punto che ne sarebbe della Nato?
«Si renderebbe necessario un ripensamento della postura generale: bisognerebbe ragionare su che ruolo vogliamo giocare e che utilizzo possiamo fare in Europa delle strutture istituzionali dell’Alleanza atlantica. Oggi abbiamo un sistema di comando e controllo molto sofisticato, che parte dal centro Shape di Mons in Belgio per poi articolarsi nei vari comandi a livello territoriale e regionale – compreso quello di Napoli in Italia. Oggi tutte queste strutture vivono anche per il contributo fondamentale degli Usa, finanziario ma soprattutto in termini di personale altamente qualificato. Se Trump decidesse di ritirarlo svuoterebbe una serie di capacità anche dal punto di vista gestionale, che i Paesi europei dovrebbero trovare il modo di colmare».
L’Europa si troverebbe di colpo vulnerabile. Quanto tempo e che sforzi occorrerebbero per riuscire a ripristinare una capacità di deterrenza credibile verso gli avversari?
«Per ripristinare la capacità di deterrenza basterebbe un accordo politico solido e ben comunicato da parte di Gran Bretagna e Francia per chiarire l’estensione a tutto il continente del loro ombrello nucleare. La potenza degli ordigni nucleari è tale per cui qualche centinaio di sistemi come quelli disponibili in Europa tra Francia e Gran Bretagna sono più che sufficienti per agire da deterrente. Resterebbe però certamente da mettere a punto un deterrente convenzionale, nel senso di capacità credibili sia dal punto di vista tecnologico sia dal punto di vista quantitativo tali da scoraggiare ulteriori ambizioni russe. Se come qualcuno ha evocato, ad esempio, gli Stati Uniti ritirassero o arretrassero le loro truppe dall’Estonia, la renderebbero sicuramente molto vulnerabile e ci vorrebbe una capacità degli altri Paesi europei di rassicurarla e scoraggiare eventuali tentazioni di Mosca».
Capacità dunque che potrebbero essere costruite all’interno dello stesso sistema Nato più o meno orfano della guida americana?
«Si può costruire all’interno del sistema Nato così come al di fuori: quello che serve è la volontà politica dei governi dei Paesi dell’Unione, perché dal punto di vista tecnico non c’è nulla da inventare. Le capacità operative si esplicitano nella possibilità dei reparti dei Paesi europei di operare insieme, così come già avviene nell’ambito dell’Alleanza: la Nato non ha un suo esercito, ma impiega le risorse militari che i singoli Paesi di volta in volta le mettono a disposizione. Questo schema lo si può riprodurre tranquillamente in Europa, purché si metta a punto una catena di comando e controllo adeguata – un equivalente di Shape – e che ci sia la possibilità di elaborare delle risposte politiche al massimo livello in tempi stretti. Diversamente da quanto accade oggi con il Consiglio europeo, dove negoziati defatiganti e la necessità dell’unanimità rendono di fatto impossibile prendere decisioni in tempi ragionevoli riguardo all’impiego di forze armate. Bisogna trovare qualcos’altro, e questo qualcos’altro – di cui dovranno far parte non solo i Paesi dell’Unione ma anche la Gran Bretagna e la Norvegia – potrebb’essere il risultato finale del processo avviato appunto lunedì dalla riunione di Parigi».
Chi è già oggi in pericolo è però l’Ucraina. Trump e Putin sembrano aver messo il turbo. Poniamo che di qui a un mese trovino l’accordo per il cessate il fuoco e lo impongano sulla testa dell’Ucraina. Che ne sarebbe del Paese dal giorno dopo?
«Attenzione, bisogna vedere se gli Stati Uniti possono davvero imporre un cessate il fuoco all’Ucraina. Oggi come oggi la produzione di proiettili da 155 mm dell’artiglieria pesante in Europa supera quella possibile da parte americana, quindi gli europei stanno gradualmente acquisendo una capacità di supportare logisticamente l’Ucraina. Dipende dall’Ucraina, se vuole resistere o decide di accettare il compromesso: se l’Ucraina volesse resistere a prescindere dalla volontà di Trump, in Europa potrebbe trovare sufficiente spazio per essere supportata. Dal punto di vista militare, ciò significherebbe che la guerra di attrito continuerebbe, con le forze armate russe probabilmente sempre con l’iniziativa, capaci di conquistare oggi un villaggio, domani altri due chilometri quadrati, ma non di arrivare a un esito finale della guerra. Andrebbe testata la capacità di resistenza della Russia, che non è infinita. Se oggi ha bisogno delle forniture di mezzi, di artiglieria e perfino di uomini da parte della Corea del Nord, oltre che del supporto industriale dell’Iran, vuol dire che un po’ di affanno c’è. E quest’affanno può avere dei riflessi immediati sul campo di battaglia. Nel 1918 i tedeschi erano all’offensiva sul fronte francese. Improvvisamente crollò il fronte interno: le forze armate del Kaiser dovettero ritirarsi e accettare la resa».
Sarebbe clamoroso, non solo sul piano militare ma pure su quello politico.
«Sarebbe clamoroso, non tanto per l’eventuale no opposto da Zelensky all’accordo, quanto per il fatto che i Paesi europei smentirebbero totalmente l’atteggiamento di Washington, sancendo la rottura».
Clamoroso ma non impensabile, lei suggerisce, se l’Europa allargata facesse davvero fronte comune e unitario. Resta che il fattore di maggior incertezza in un quadro del genere sarebbe probabilmente proprio il ruolo dell’Italia di Giorgia Meloni.
(Camporini allarga le braccia: no comment)
Se invece l’Ucraina dovesse accettare l’accordo di cessate il fuoco, magari un po’ meno sfavorevole di quanto temuto, si porrebbe il tema di garantire dal giorno dopo la difesa del Paese. Si parla di una missione europea di “peace-keeping”. Le pare uno scenario realistico?
«I russi l’hanno già sbeffeggiata, ed è evidente che una presenza sul terreno in funzione di separazione tra le parti con truppe di Paesi che hanno apertamente e materialmente sostenuto una delle parti sino al giorno prima non potrebbe essere percepita come portatrice di neutralità. Oltretutto si tratterebbe di mettere militari di Paesi della Nato in una situazione di rischio senza, come ha esplicitamente dichiarato l’Amministrazione Usa, la garanzia del supporto dell’articolo 5. Mi pare quindi un’ipotesi priva di qualsiasi fondamento».
Esclusa come ormai pare pure la strada dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, quali altri sistemi di garanzia si potrebbero offrirle?
«I sistemi di garanzia forniti dagli strumenti diplomatici lasciano il tempo che trovano – basti pensare al destino del Memorandum di Budapest (1994) o del Trattato d’amicizia russo-ucraino del ’97, solenni documenti in cui si garantiva l’integrità territoriale dell’Ucraina: sappiamo com’è andata a finire. Le uniche garanzie vere sono quelle che vengono fornite con la realtà dei fatti, quindi con il supporto economico, logistico, se non militare. Inviterei però a non sottovalutare il significato dell’adesione possibile dell’Ucraina all’Ue. Pochi lo ricordano, ma nel Trattato di Lisbona cui Kiev aderirebbe c’è un articolo che è perfino più potente del famoso articolo 5 della Nato. Si tratta dell’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea, che al comma 7 dice che in caso di aggressione a uno degli Stati membri dell’Unione tutti gli altri sono tenuti a rispondere «con qualsiasi mezzo», incluse le forze militari. Tradotto, l’adesione all’Ue che appare essere meno invisa a Mosca di quella alla Nato in realtà fornisce delle garanzie anche militari che nello scenario nuovo descritto potrebbero essere molto rilevanti».