Ultime notizie Elon MuskHamasLucio CorsiPapa Francesco
SALUTERicerca scientifica

Demenza, ci sono 14 fattori di rischio che possono annunciare la malattia e, se arginati, aiutare a prevenirla: ecco quali sono

23 Febbraio 2025 - 09:28 Gemma Argento
La Commissione Neurologica di Lancet ha aggiornato il rapporto sulla prevenzione dell'Alzheimer, identificando gli elementi spia di circa la metà dei casi

Predire il rischio di demenza si può. Ad accertarlo i primi risultati del progetto Interceptor: promosso e finanziato nel 2018 dal Ministero della Salute e dall’Agenzia Italiana del Farmaco, lo studio mette al centro 8 precisi parametri, detti biomarcatori, in grado di stabilire per ogni soggetto il rischio più o meno alto di andare incontro a malattie neurodegenerative. Un passo importante per il contrasto a una malattia come l’Alzheimer che comincia a danneggiare il cervello molto tempo prima che si manifesti con sintomi clinici. La questione diagnostica è ancora uno dei punti focali della ricerca scientifica sulle demenze: è per questo che alla luce di uno studio come quello presentato dal team italiano la domanda per tutti i potenziali pazienti è su come fare, una volta attestato un alto rischio di ammalarsi per esempio di Alzheimer, a ritardare il più possibile l’avvento della patologia o addirittura di evitarla.  

Sono o non sono ad alto rischio di sviluppare demenza?

Per rispondere alla domanda sui possibili metodi per ritardare o evitare l’avvento di malattie neurodegenerative, è necessario chiarire quali siano i parametri fondamentali che secondo gli ultimi studi siano in grado di stabilire un basso o alto rischio di andare incontro a una demenza. Questi gli otto parametri presi in considerazione dagli scienziati:

  • sesso
  • età
  • valutazione delle funzioni cognitive
  • memoria episodica
  • attività metabolica cerebrale
  • valutazione dell’atrofia ippocampale
  • valutazioni delle menomazioni nelle attività strumentali della vita quotidiana con il questionario Amsterdam IADL
  • familiarità per la demenza

Esistono una serie di esami per rilevare i biomarcatori appena elencati: il test MMSE (Mini Mental State Examination), uno degli strumenti più diffusi per la valutazione delle funzioni cognitive; il test DFR per la valutazione della memoria episodica; l’FDG-PET per l’analisi dell’attività metabolica cerebrale, un esame di medicina nucleare che si basa sulla somministrazione per via endovenosa di un radiofarmaco, il 18F-FDG (fluoro-desossiglucosio) analogo del glucosio; la Risonanza Magnetica volumetrica per la valutazione dell’atrofia ippocampale, EEG per lo studio della connettività cerebrale; il test genetico per l’individuazione dell’APOE e4, la variante del gene APOE associata a un maggior rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer e ancora l’esame del liquido rachidiano, quello che occupa i ventricoli cerebrali.

La combinazione dei vari esami e quindi la valutazione dei parametri che ne usciranno saranno in grado di fornire buone capacità prognostiche per predire l’avvento di una demenza: si parla di un anticipo di circa 3 anni.

Sono ad alto rischio demenza: è possibile ritardare il processo di declino cognitivo?

La diagnosi precoce è uno degli obiettivi ancora da centrare in pieno dalla ricerca scientifica, contrastare l’accumulo anomalo nel cervello della proteina chiamata amiloide, causa principale della comparsa dell’Alzheimer, è ancora obiettivo complesso. Nel 2024 la Commissione Neurologica di Lancet ha aggiornato un suo precedente rapporto sulla prevenzione della demenza del 2020. Effettuando nuove revisioni ha individuato 14 fattori di rischio capaci di incidere sul rischio di malattia per il 45%. Tali elementi risultano modificabili durante tutto l’arco della vita e possono quindi, se gestiti, permettere di prevenire quasi la metà dei casi. Sono:

  • bassi livelli di istruzione
  • riduzione dell’udito
  • pressione alta
  • fumo
  • obesità
  • depressione
  • inattività fisica
  • diabete
  • consumo eccessivo di alcol
  • danni cerebrali da traumi ripetuti
  • inquinamento
  • isolamento sociale

L’ultimo rapporto rispetto all’analisi del 2020, ne ha aggiunti altri due:

  •  colesterolo Ldl alto
  • perdita della vista non trattata

Considerata, da un lato, la scarsa (almeno per ora) possibilità di intervento terapeutico per le demenze, e dall’altro la possibilità di rallentamento della progressione della malattia, la prevenzione resta un’arma di fondamentale importanza nonché la più forte strategia al momento a disposizione. «Abbiamo generato una prospettiva completa del corso di vita della prevenzione della demenza che incorpora questi 14 fattori di rischio», spiega la Commissione, « il potenziale di prevenzione è elevato e, nel complesso, quasi la metà delle demenze potrebbe teoricamente essere prevenuta eliminando i fattori elencati. Questi risultati forniscono speranza».

Gli scienziati commentano poi quanto rilevato nello specifico: «Le prove di fattori di rischio specifici suggeriscono che tutti i bambini dovrebbero essere istruiti e che una lunga durata dell’istruzione è vantaggiosa. È importante essere cognitivamente, fisicamente e socialmente attivi nella mezza età (cioè, di età compresa tra 18 e 65 anni) e in età avanzata (cioè, di età inferiore ai 65 anni), con nuove prove che dimostrano che l’attività cognitiva di mezza età fa la differenza anche nelle persone che hanno ricevuto poca istruzione». E ancora: «Le prove che il trattamento della perdita dell’udito diminuisce il rischio di demenza è ora più forte di quando è stato pubblicato il nostro precedente rapporto della Commissione. L’uso di apparecchi acustici sembra essere particolarmente efficace nelle persone con perdita dell’udito e fattori di rischio aggiuntivi per la demenza. Nuove prove suggeriscono anche che il trattamento della depressione e della cessazione del fumo potrebbero entrambi ridurre il rischio di demenza». Le scoperte recenti riguardano anche la riduzione dell’inquinamento atmosferico, legata al miglioramento della cognizione e alla riduzione del rischio di demenza. Così come i casi di trauma cranico, che a qualsiasi età e da qualsiasi fonte, continua ad essere un fattore di rischio per la demenza: «Prove nuove e migliorate suggeriscono che gli sport di contatto rappresentano un rischio. Oltre a dirci che la protezione dalle lesioni alla testa, ad esempio utilizzando attrezzature di protezione adeguata, riducendo le collisioni ad alto impatto, dovrebbe essere una priorità individuale e di salute pubblica».

Quando è troppo tardi?

Demenze. Distribuzione dei fattori di rischio potenzialmente modificabili, nell’arco della vita. Lancet 2024

È chiaro agli scienziati come gli approcci di prevenzione dovrebbero mirare a ridurre il livello dei fattori di rischio in anticipo e mantenerli bassi per tutta la vita. Sebbene sia auspicabile garantirsi la tutela dei 14 parametri in una fase iniziale della vita, affermano però che «non è mai troppo presto o troppo tardi per ridurre il rischio di demenza», e che «molte delle prove suggeriscono che gli interventi di mezza età rimangano molto importanti, anche nelle persone con aumentato rischio genetico di demenza».

Oltre alle 14 mosse, esistono farmaci che aiutano a rallentare o evitare il decorso?

La ricerca scientifica continua a voler far chiarezza sulle cause specifiche che provocano demenza e in maniera particolare che generano l’accumulo della proteina amiloide, responsabile dell’Alzheimer. Ad oggi i farmaci sperimentati o approvati hanno degli effetti purtroppo non definitivi sul contrasto alla malattia. L’aiuto fornito è quello di un rallentamento del declino cognitivo in atto, e in diversi casi solo su alcune categorie di pazienti.

Nel 2024 l’Fda statunitense ha approvato un nuovo anticorpo monoclonale, il donanemab, sviluppato da Eli Lilly e venduto con il nome commerciale di Kisunla. Il farmaco si è rivelato utile nel rallentare la progressione della malattia nei casi lievi o precoci con un’efficacia del 35%, riducendo così il rischio di passare allo stadio successivo della malattia. Al momento però si tratta di una soluzione sperimentata soltanto negli Stati Uniti.

Possibili meccanismi cerebrali per migliorare o mantenere la riserva cognitiva e ridurre i potenziali fattori di rischio di demenza. Lancet 2024

Strada tortuosa su territorio europeo anche per l’aducanumab, il primo farmaco contro la beta amiloide autorizzato negli Stati Uniti nel 2021. La sua approvazione da parte dell’Fda fece molto discutere la comunità scientifica soprattutto per dati clinici non così a favore del farmaco soprattutto in termini di sicurezza garantita ai pazienti. Dati i forti timori, l’Ema preferì rigettare la richiesta di approvazione per il mercato europeo.

L’unico farmaco ad oggi approvato sia dall’Fda che dall’Ema è il lecanemab. Nel 2023 è arrivato il via libera dell’agenzia americana. Un anno dopo anche quella europea ha deciso di autorizzare l’anticorpo monoclonale ma con la condizione ben precisa di utilizzo solo per una certa categoria di pazienti, e cioè quelli in una fase della malattia molto precoce, con il fine di evitare il rischio di gravi effetti collaterali. Ora toccherà all’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) esprimersi sulla possibilità di utilizzo anche su territorio nazionale. Oltre a non rappresentare una cura definitiva alla malattia, è bene specificare che si tratta di farmaci molto costosi, bisognosi di infusioni costanti e con rischi di alterazioni correlati alla proteina amiloide. Tra gli effetti collaterali anche disturbi visivi, cefalea, stati confusionali, fino a emorragie cerebrali. Dall’altra parte i dati parlano chiaro su come siano in grado di “regalare” periodi aggiuntivi di autonomia a pazienti che altrimenti andrebbero incontro molto prima agli effetti della demenza stessa.

Il rallentamento della malattia: quanto tempo si guadagna?

Il nuovo studio della Washington University School of Medicine di St. Louis pubblicato su Alzheimer’s & Dementia: Translational Research & Clinical Interventions chiarisce le potenzialità dei due farmaci, donanemab e lecanemab, sulla qualità di vita di un paziente con sintomi lievi di declino cognitivo, dove per sintomi lievi si intende la difficoltà nel seguire una conversazione, ancora dimenticare spesso impegni e appuntamenti. «Con l’assunzione di donanemab i pazienti sono in grado di aggiungere 8 mesi di indipendenza dal progressivo declino cognitivo, con lecanemab si arriva a 10». E ancora, nei casi di sintomi più evidenti come il ripetere sempre le stesse frasi o domande e di pazienti già ricoverati in strutture residenziali, «il donanemab ha fornito 19 mesi aggiuntivi di capacità di vestirsi, lavarsi e nutrirsi in autonomia, 26 mesi per i lecanemab».

Foto in evidenza di Gerd Altmann da Pixabay

Articoli di SALUTE più letti
leggi anche