Licenziato, reintegrato e «costretto a non fare niente»: maxi risarcimento da mezzo milione a un bancario
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Licenziato per due volte, per due volte reinserito nei quadri più alti del Credito Emiliano perché il tribunale aveva giudicato illegittimo l’allontanamento. Al rientro nella filiale, però, il bancario – con un contratto appena al di sotto di quello dirigenziale – era stato relegato a mansioni che non faceva da quindici anni. Un vero e proprio «demansionamento», frutto della querelle mai terminata tra dipendente e banca, che di fatto ha lasciato il dipendente in un angolino a girarsi i pollici per intere giornate. E che ora, per verdetto della Corte d’Appello di Milano (Sezione lavoro), gli è valso un maxi risarcimento di quasi mezzo milione di euro.
I due licenziamenti e il reintegro «senza far parte della squadra»
Nel 2011 il primo licenziamento, sette anni dopo il secondo. Evidente, nonostante il reintegro nella forza lavoro del Credito Emiliano stabilito due volte dal tribunale, lo scontro vivo tra il bancario e l’istituto di credito. Una guerra vera e propria che è sfociata nella decisione, da parte dei dirigenti di filiale, di escludere completamente il dipendente dalla vita lavorativa quotidiana. «Non aveva compiti né carichi assegnati», ha raccontato un collega. «Stava tutto il giorno senza fare nulla. Mi era stato detto di non curarmi di questa cosa perché “lui non faceva parte della squadra”». Una vicenda che la Corte d’Appello di Milano ha definito «una grave vicenda di demansionamento». Da qui la sentenza di condanna del Credito Emiliano, che dovrà pagare al suo dipendente il 30 per cento dello stipendio lordo dal 2009 – data iniziale degli scontri interni – fino al momento in cui l’uomo ha presentato ricorso. A questo, poi, si sono aggiunti 70mila euro o poco più di danni non patrimoniali. Per un totale, appunto, che si avvicina ai 500mila euro.
Capitolo
Proprio nel 2009, infatti, il dipendente aveva perso il suo ruolo di coordinamento e gestione del personale. Un declassamento che, a dirla tutta, non è mai stato accompagnato da «attacchi alla reputazione» o «isolamento sistematico». E che quindi non ha portato con sé le aggravanti di persecuzione o vessazione da parte dei dirigenti. Anche perché la stessa Sezione lavoro della Corte ha riconosciuto una «tendenziale volontà di chiusura» da parte del lavoratore: «Non voleva fare nessuna attività», è la testimonianza di un altro collega. «Mi ha detto che non se la sentiva, visto che aveva una causa con la banca». Secondo il legale del dipendente, in ogni caso, la sentenza è una vittoria: «Ribadisce che il rispetto della dignità del lavoratore e la tutela della sua professionalità non possono essere sacrificati». E soprattutto va a ristabilire «la tolleranza zero rispetto ad ambienti di lavoro nocivi e stressogeni».