Gli schiavi del mare di Kim Jong-un, decine di nordcoreani venduti ai pescherecci cinesi: «Per 10 anni non sbarcano. E la paga finisce a Pyongyang»
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Schiavi sui pescherecci cinesi nell’Oceano Indiano, senza paga – tutta dirottata al governo della Corea del Nord – e senza poter mai scendere a terra per paura di essere visti e puniti. Sono decine i nordcoreani venduti come schiavi da Pyongyang alle flotte di Pechino, in piena violazione delle risoluzioni Onu che proibiscono alla Corea del Nord di spedire forza lavoro all’estero. È quanto emerge dal report «Intrappolati in mare» della ong inglese Environmental Justice Foundation, grazie a numerose interviste ai colleghi e compagni di equipaggio.
La trappola sul mare: «Da sette anni non parla con sua moglie»
Una forza lavoro nascosta, abusiva, che non può in nessun modo farsi scoprire. Non solo perché viola la rigida regolamentazione approvata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma perché ogni won (valuta nordcoreana) intascato da quei pescatori è intascato da quella stessa madrepatria che li ha venduti ai pescherecci cinesi. Quelle imbarcazioni e quelle reti sono ormai la prigione per numerosi uomini nordcoreani. Di sbarcare e toccare terra, anche solo per acquistare qualche provvista, non se ne parla nemmeno. È troppo alto, infatti, il rischio di essere notati e di allertare le autorità dei Paesi toccati dalle rotte dei cacciatori di tonni. «Il loro governo non ha dato loro permesso di tornare a casa», ha spiegato a Ejf un compagno di equipaggio indonesiano. «Imbarcati con noi c’erano sei coreani che non potevano tornare in patria da quattro anni. E il loro contratto era terminato», ha aggiunto un lavoratore filippino. «Uno di loro mi ha raccontato che aveva moglie e non le aveva mai potuto parlare negli ultimi sette anni».
Il trasferimento di nave in nave
E sette anni lontano da casa non è nemmeno la casistica peggiore. Secondo le testimonianze raccolte dalla ong inglese alcuni nordcoreani non tornano in patria da almeno dieci anni. Come evitare, però, di essere visti? La procedura è semplice e ripetuta ogni volta che le imbarcazioni si avvicinano alla terraferma. Poco prima di entrare in porto, tutti i lavoratori abusivi vengono trasferiti su una seconda imbarcazione, che sta invece prendendo il largo. «Quando il nostro peschereccio doveva entrare in porto alle isole Mauritius, i nordcoreani sono stati passati a un altro battello che riprendeva il mare», ha raccontato un testimone.
I (rari) tentativi di rivolta
La stessa procedura è utilizzata dai capitani di bordo quando temono incidenti che potrebbero essere notati dalle forze dell’ordine: «Uno dei loro compagni non era in grado di lavorare, si era un po’ ammalato ed era anche vecchio. Il nostro nostro capo lo sgridava e gli diceva: “Che cosa farà? Mangerà e basta? Mangiare e dormire?”», ha raccontato un pescatore indonesiano. «Un nordcoreano si offrì di lavorare per il suo collega ma al nostromo non è piaciuto, così ha urlato e si è arrabbiato, facendo arrabbiare i coreani. I cinesi non riuscirono a controllare i nordcoreani, così furono trasferiti su un’altra nave». Una prigione in movimento, lavori forzati senza possibilità di intravedere il giorno della liberazione: due ingredienti che per Steve Trent, direttore della ong, sono «il fallimento delle leggi sul lavoro in mare».