Usa, dalla «nuova età dell’oro» alla «settimana nera di Wall Street»: ora Trump spaventa i mercati


Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca avrebbe dovuto rappresentare una manna per l’economia americana, almeno stando alle previsioni degli analisti e alle speranze degli elettori. A un mese e mezzo dal suo insediamento a Washington, le cose non stanno andando come previsto. Anzi, la crescita economica è destinata a rallentare, l’occupazione diminuisce e c’è chi teme addirittura che gli Stati Uniti stiano andando verso la recessione. Il timore dei mercati è emerso in modo lampante soprattutto nell’ultima settimana, quando gli annunci schizofrenici della Casa Bianca sui dazi hanno fatto crollare le Borse e creato un clima di forte incertezza.
La settimana nera dei mercati americani
Per il mercato azionario americano quella che sta per concludersi sarà la terza settimana consecutiva con il segno meno. Non solo: secondo il New York Times, la perdita del 3,4% registrata da Wall Street negli ultimi cinque giorni è la più vistosa dallo scorso settembre. A preoccupare gli investitori è soprattutto la traiettoria incerta dell’economia a stelle e strisce, su cui pesa lo spettro dei dazi e un possibile rimbalzo della disoccupazione. Detta in altre parole: sono le politiche economiche di Trump ad agitare i mercati. Al punto che tra i critici più vocali dell’amministrazione si è aggiunto ora anche il Wall Street Journal, quotidiano storicamente vicino ai conservatori americani. In un editoriale pubblicato il 6 marzo, Trump viene accusato di trattare «l’economia come un giocattolo personale, mentre i mercati ruotano a ogni capriccio presidenziale».
La politica schizofrenica di Trump sui dazi
La minaccia di dazi è senz’altro lo strumento di politica economica più controverso tra quelli abbracciati da Trump nelle sue prime sei settimane a Washington. Da quando si è insediato alla Casa Bianca, il presidente americano ha minacciato di imporre tariffe sulle importazioni da svariati Paesi, Europa compresa. In genere i mercati non amano le barriere commerciali, ma c’è un ulteriore elemento che questa volta contribuisce a preoccupare gli analisti: il caos con cui la Casa Bianca ha gestito l’imposizione dei dazi. Lo sanno bene i governi di Canada e Messico, che insieme alla Cina sono stati designati come prime vittime della guerra commerciale americana.
A fine gennaio, Trump ha annunciato l’imminente approvazione di tariffe al 25% su tutti i beni importati dai due Paesi confinanti con gli Usa. Il 3 febbraio, poche ore prima dell’entrata in vigore del decreto presidenziale, la Casa Bianca ha fatto sapere di aver raggiunto un accordo con Messico e Canada, posticipando di fatto i dazi di un mese. A inizio marzo, le tariffe sono effettivamente entrate in vigore ma solo per pochi giorni. I timori di un rincaro dei prezzi di Suv e pick-up – due categorie di veicoli particolarmente amate dai conservatori – hanno convinto Trump a escludere il comparto automotive dalle tariffe commerciali, salvo poi annunciare l’ennesimo rinvio di un mese per tutti quei prodotti che ricadono sotto l’accordo commerciale Usmca.
Quando i giornalisti hanno chiesto a Trump se il rinvio dei dazi fosse dovuto al crollo della Borsa americana, il presidente americano ha negato in modo categorico: «Non li ho nemmeno guardati i mercati». Eppure, secondo diversi media d’oltreoceano, sarebbe proprio la preoccupazione di cittadini, imprese e Wall Street ad aver spinto la Casa Bianca verso l’ennesimo passo indietro. Martedì 4 marzo, giorno dell’entrata in vigore – poi sospesa – dei nuovi dazi contro Canada e Messico, a Wall Street l’S&P 500 ha bruciato tutti i guadagni accumulati dalle elezioni del 5 novembre, mandando in fumo oltre 3.400 miliardi di dollari. Quel giorno hanno chiuso con il segno meno anche tutti i listini europei, preoccupati dallo spettro di nuovi dazi minacciati da Trump. Solo nei giorni successivi, grazie al maxi-piano di riarmo annunciato dalla Commissione europea, le Borse del Vecchio Continente sono tornate a crescere.

L’effetto Trump sull’economia e il rischio recessione
Il caos degli ultimi giorni ha spinto gli analisti a ritoccare al ribasso le stime sull’andamento dell’economia americana per il 2025, aprendo addirittura alla possibilità di una recessione. A inizio settimana, la Federal Reserve ha pubblicato una previsione del prodotto interno lordo degli Stati Uniti che crolla del 2,8% nel primo trimestre dell’anno. Quando Trump ha vinto le elezioni, ricorda un articolo del New York Times, l’economia navigava a gonfie vele: la disoccupazione era ai minimi storici, mentre gli stipendi dei lavoratori e i profitti delle aziende crescevano. L’unico problema riguardava l’inflazione, in calo rispetto ai mesi precedenti ma ancora a livelli molto alti. La maggior parte degli economisti ritiene improbabile che gli Stati Uniti stiano davvero per entrare in una fase di recessione, ma è indubbio che la prospettiva economica sia decisamente meno rosea rispetto a pochi mesi fa.
La colpa, stando a quanto scrive la maggior parte dei giornali americani, va cercata proprio nelle politiche dell’amministrazione Trump. I dazi imposti dalla Casa Bianca e le ritorsioni commerciali dei Paesi, scrive sempre il New York Times, «aumenteranno i prezzi e rallenteranno la crescita». Le campagne di deportazione degli immigrati irregolari «potrebbero far aumentare i costi» per l’edilizia, l’agricoltura e il turismo, tre settori che dipendono in buona parte dalla manodopera straniera. I tagli ai posti di lavoro federali imposti dal Doge di Elon Musk «faranno aumentare la disoccupazione» e potrebbero indurre i dipendenti pubblici a ridurre i propri consumi.
Un primo indizio, d’altronde, è arrivato con gli ultimi dati sul mercato del lavoro. A febbraio, l’economia americana ha creato 151mila posti di lavoro, un dato più basso rispetto ai 160mila che si attendevano gli analisti. Se si guarda al governo federale, gli occupati sono 10mila in meno rispetto al mese precedente, principalmente proprio a causa dei tagli portati avanti da Musk. Jay Bryson, chief economist di Wells Fargo, ha descritto questa situazione tramite la metafora della «morte da mille tagli di carta» (in inglese, death by a thousand paper cuts). In altre parole, nessuna delle politiche appena menzionate ha un impatto abbastanza grande da poter causare una recessione. Ma se si sommano tutti i loro effetti, il rischio di una contrazione dell’economia americana diventa molto più concreto.
Le mani di Trump sulle statistiche
C’è un altro elemento che sembra suggerire una certa preoccupazione dentro la Casa Bianca per la tenuta dell’economia. L’amministrazione Trump starebbe cercando infatti di manipolare le statistiche del Paese per nascondere un eventuale rallentamento della crescita. Come? Proponendo di escludere la spesa pubblica dal computo ufficiale del Pil, così da non calcolare eventuali ripercussioni negative dei drastici tagli imposti dal dipartimento di Elon Musk o da altre misure applicate nelle prime sei settimane dell’era Trump. Nel frattempo, scrive Reuters, il presidente americano ha deciso di sciogliere due comitati di tecnici indipendenti che affiancavano il governo nell’analisi dei dati sull’economia: il Federal Economic Statistics Advisory Committee e il Bureau of Economic Analysis Advisory Committe. Entrambi i comitati affiancavano le agenzie federali da oltre due decenni.

La caduta del dollaro e i progetti di Trump sulle cripto
Il clima di incertezza causato dall’amministrazione Trump si è fatto sentire anche sul dollaro, bene rifugio per eccellenza. Storicamente la valuta americana tende a rafforzarsi durante le fasi di tensione internazionali e con le svolte protezionistiche di Washington. Questa volta, invece, le cose sembrano andare diversamente. Negli ultimi cinque giorni il dollaro ha avuto la sua peggiora settimana dalle elezioni dello scorso novembre, proprio mentre l’euro – spinto dal sesto taglio consecutivo dei tassi di interesse annunciato dalla Bce – ha toccato il massimo degli ultimi quattro mesi nel confronto con il biglietto verde. Nel frattempo, Donald Trump tira dritto sul suo progetto di rendere gli Stati Uniti i nuovi protagonisti della finanza digitale.
Nei giorni scorsi, il presidente americano ha firmato due diversi ordini esecutivi: uno volto a creare una riserva strategica di bitcoin e uno per creare un’altra riserva, parallela, composta dagli altri token. I depositi saranno costituiti dalle monete digitali confiscate dalle autorità e, ha sottolineato la Casa Bianca, «non comporteranno alcun aggravio per i contribuenti americani». Anche in questo caso, i mercati non hanno reagito con entusiasmo. I sostenitori più accaniti delle cripto si aspettavano che Trump avviasse un importante programma di acquisto di token da parte del governo federale, e non che si limitasse a mettere in un deposito le cripto già in possesso delle autorità. Dopo l’annuncio della Casa Bianca, scrive il Financial Times, i prezzi del bitcoin e di molte altre criptovalute sono crollati.
Foto copertina: EPA/Samuel Corum | Il presidente americano Donald Trump durante un incontro con la stampa alla Casa Bianca, 3 marzo 2025