Basta armi Usa: coi nuovi fondi Ue si potranno comprare solo «made in Europe». La svolta di Von der Leyen (che fa felice la Francia)
Centinaia di miliardi di risorse aggiuntive da spendere in armi, certo. Ma non armi qualsiasi: made in Europe. È quanto ha chiarito oggi Ursula von der Leyen in un passaggio del suo discorso al Parlamento europeo dedicato al piano ReArm Europe. Dei complessivi 800 miliardi che l’Ue mira a generare col piano – che Giorgia Meloni vorrebbe far rinominare “Defend Europe” – la Commissione gestirà in via diretta un fondo da 150 miliardi. Si chiamerà Safe (Security Action for Europe), ha detto oggi von der Leyen, e offrirà prestiti agli Stati membri che vorranno usufruirne per costruire «capacità strategiche in alcuni domini selezionati: dalla difesa aerea ai droni, dagli strumenti strategici al cyber, in modo da massimizzare l’impatto dei nostri investimenti». Ma c’è un altro nuovo paletto rilevante, appunto, ed è quello sulla provenienza dei sistemi che verranno acquistati con Safe: «Questi prestiti dovranno finanziare gli acquisti presso i produttori europei, per contribuire al rilancio della nostra industria della difesa. E i contratti dovranno essere pluriennali per dare all’industria la prevedibilità necessaria». Poche brevi frasi che potrebbe seppellire decenni di abitudine invalsa in buona parte del continente: quella di comprare armi, sistemi e mezzi militari all’estero, in primis dagli Usa.
La spinta di Francia e Germania e il ruolo dell’Italia
La clausola del Buy European era sponsorizzata, e non da ieri, in primis dalla Francia, che tiene ovviamente ad assicurare ghiotti contratti al suo rilevante comparto industriale di difesa. Sin qui la decisione era rimasta in bilico: l’Italia di Giorgia Meloni, assestata su posizioni ben meno rivaleggianti con gli Usa di Donald Trump, coltivava un certo grado di scetticismo. Ma a spostare poderosamente gli equilibri è stato con ogni probabilità il radicale riposizionamento della Germania nelle ultime tre settimane: subito dopo la vittoria alle elezioni del 23 febbraio il leader della Cdu Friedrich Merz ha proclamato – stupito lui stesso – la necessità per la Germania e l’Ue di «rendersi indipendenti dagli Usa». Già pochi giorni prima, d’altronde, aveva evocato la possibilità che a difendere l’Europa – col disimpegno annunciato da Trump – potesse essere l’ombrello nucleare franco-britannico. I contatti tra Francia e Germania si sono fatti febbrili, e la scorsa settimana il nascituro tandem Cdu-Spd, dopo aver concordato di eliminare il «freno al debito» dalle sue spese militari, ha addirittura chiesto alla Commissione di rivedere il Patto di stabilità per consentire di investire in difesa senza vincoli. Manfred Weber, il dirigente tedesco che guida il Ppe, ci è andato giù altrettanto pesante con Trump al Parlamento europeo, bollando come «uno scandalo» l’imboscata tesa dieci giorni fa alla Casa Bianca al leader ucraino Volodymyr Zelensky. Tra dazi in arrivo, alleati traditi e regali a Putin, insomma, la “nuova” Germania – al pari della Francia di Macron – non si fida più per niente dell’America, e ora von der Leyen dà forma alla risposta. Dall’energia alle armi, il Buy European diventa così via via quasi un motto della nuova Commissione Ue.
Se dipendere dagli Usa diventa un pericolo
Secondo il rapporto globale sulle armi pubblicato lunedì dal Sipri, tra il 2020 e il 2024 i Paesi europei della Nato hanno importato dagli Usa il 64% delle armi, dato in netta crescita rispetto al quinquennio precedente. Sino a ieri nessuno batteva ciglio, anzi dare ad aziende americane succosi contratti era considerato un segno di fedeltà transatlantica e un investimento sulla propria sicurezza, garantita proprio dagli Usa. Ma ora, nel giro di poche settimane, tutto è cambiato e quell’iper-dipendenza appare d’improvviso come un serio rischio. Come fanno notare oggi svariati esperti militari a Le Figaro, molto spesso le «chiavi» di quei sistemi d’arma restano di fatto negli Usa: siano componenti di sistemi di difesa – come per i Patriot; dati d’intelligence essenziali – ad esempio per far volare gli F-35; o semplicemente permessi di utilizzo. Un investimento decennale rischia di diventare insomma d’improvviso il «tallone d’Achille» d’Europa. Von der Leyen ha ovviamente sorvolato su tutto questo – domenica a precisa domanda s’è rifiutata di dire che con gli Usa, così come con la Cina, sia ora di passare al de-risking, cioè di spezzare via via dipendenze e intrecci economico-tecnologici – ma la direzione di marcia è chiara. «Non dipendere da altri continenti è questione di sicurezza», ha detto oggi, interpretando il sentiment di molti, la ministra dell’Economia svedese Elisabeth Svantesson.
La proposta dell’Italia sui fondi privati e l’apertura Ue
Oltre che sulla destinazione d’uso dei nuovi fondi, i governi e la Commissione si confrontano alacremente in questi giorni pure sulla loro provenienza. Si è parlato anche di questo alla riunione dei ministri delle Finanze Ue (Ecofin) svoltasi tra ieri e oggi a Bruxelles. Tra le proposte affrontate, anche quella presentata dall’Italia per attirare con garanzie pubbliche Ue investimenti privati. L’idea presentata da Giancarlo Giorgetti è in sostanza quella di istituire «un fondo di garanzia di circa 16 miliardi di euro che potrà mobilitare fino a 200 miliardi di investimenti industriali aggiuntivi, in linea con le migliori pratiche di InvestEu». Proposta che pare essere stata accolta con interesse dagli omologhi europei. «È stata accolta favorevolmente, ora andrà discussa con la Commissione europea», ha detto al termine della riunione il ministro delle Finanze polacco Andrzej Domanski, alla presidenza di turno Ue. «Stiamo anche cercando come fare leva per gli investimenti privati, incluso cosa possa venir fatti con strumenti come l’InvestEu e altri programmi europei», ha confermato da parte sua il commissario Ue all’Economia Valdis Dombrovskis. Su tutti questi nodi, si attende ora la proposta legislativa che la Commissione dovrebbe mettere a punto in vista del prossimo vertice dei leader Ue, in programma a Bruxelles il 20 e 21 marzo.