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Siria, dopo il massacro dei civili resta solo la paura: «Hanno ucciso i miei familiari, ora penso a come far scappare i miei figli» – L’intervista

siria massacri civili intervista ahmed
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«Hanno distrutto villaggi, incendiato case, profanato tombe. Non siamo più al sicuro», racconta Ahmed, operatore umanitario di Latakia, a Open

Ahmed (nome di fantasia) è un operatore umanitario che vive nella regione costiera occidentale di Latakia, in Siria. Una roccaforte degli alawiti, minoranza sciita a cui apparteneva l’ex presidente Bashar al-Assad, dove oltre 1.200 persone sono state uccise nei massacri attribuiti a milizie sunnite filo-governative, che negli ultimi giorni si sono scontrate a ovest della Siria con i lealisti di Assad. «I jihadisti hanno compiuto un massacro contro il popolo siriano e ucciso civili innocenti, tra cui donne e bambini, che non avevano alcun legame con il precedente regime – racconta a Open Ahmed -. Hanno distrutto villaggi, incendiato case, profanato tombe». Sono i civili a pagare il prezzo più alto dell’immensa ondata di violenza, che rischia di riportare la Siria nel vortice di «una guerra civile», sottolinea. E non importa se sono stati complici della dittatura, o contro il regime dissoltosi lo scorso 8 dicembre; se sono vecchi o bambini. «Mio zio di 70 anni è stato massacrato insieme a sua moglie di 60», racconta ancora Ahmed. «Vivevano a Baniyas, nel quartiere di Al-Qusur», un borgo sul mare a 50 chilometri circa da Latakia dove sono ancora visibili i segni della sciagura: negozi bruciati, case saccheggiate, cadaveri per le strade.

«Rastrellamenti, civili uccisi e case bruciate»

L’esecuzione di massa non è avvenuta soltanto a Latakia e Tartus, anzi «la situazione – precisa – è peggiore altrove». «I jihadisti – come li chiama Ahmed – hanno ucciso tantissimi civili anche in altri villaggi come Barmaya, Hammam Wasl, Al-Qadmous, Jabla, Ain Al-Arous (tutte città a ovest, ndr)», dice. «E solo perché erano alawiti, o anche cristiani». Minoranze, che il presidente ad interim al-Jolani, che ora si fa chiamare Ahmed al Sharaa, ha più volte promesso di proteggere. «I jihadisti hanno infranto tutte le regole: sono entrati nei nostri villaggi, hanno distrutto e bruciato tutto ciò che trovavano sul loro cammino». Tutto è cominciato giovedì scorso, quando il ministero della Difesa siriano ha dato notizia di un agguato da parte di alcuni miliziani, indicati come “membri dell’ex regime”, contro una pattuglia di armati governativi nella zona di Jabla, a sud di Latakia. L’uccisione di 14 armati governativi e gli attacchi sferrati da altre cellule dell’ex regime a Baniyas anche contro civili sunniti hanno innescato una spirale di violenza, da troppo tempo, decenni in molti casi, rimasta sotto le ceneri, e che nel giro di pochi giorni ha mietuto oltre un migliaio vittime tra militari e civili. Un bilancio che continua ad aumentare, mentre arrivano dalle varie città colpite i necrologi delle famiglie sterminate, assieme alle numerose foto di corpi scomposti – la cui autenticità è stata verificata incrociando diverse testimonianze sul terreno – e senza vita di uomini, donne e bambini, riversi a terra, sui divani, sui letti, con fori di arma da fuoco.

«Non siamo al sicuro»

Il governo di transizione siriano sta concentrando l’attenzione sulle responsabilità individuali di specifici gruppi armati e miliziani, accusati di aver perpetrato i massacri nelle comunità alawite senza il coinvolgimento di Damasco. «Possiamo vivere insieme: dobbiamo preservare l’unità nazionale e la pace civile per quanto possibile», ha detto domenica il presidente ad interim, annunciando la formazione di una Commissione speciale per far luce sugli accadimenti degli ultimi giorni. Lunedì 10 marzo il ministero della Difesa ha proclamato «la fine di un’operazione militare» nell’ovest del Paese dopo che le forze di Damasco «sono riuscite a raggiungere tutti gli obiettivi prefissati», è il messaggio del portavoce del ministero Hassan Abdel Ghani, citato dall’agenzia ufficiale Sana. «Oggi, infatti, non ci sono stati massacri – conferma Ahmed -, anche grazie all’enorme pressione della comunità internazionale. Si sono fermati, nessuna uccisione violenza o scontro armato». Ciò che resta è la paura. L’euforia vissuta dopo l’8 dicembre, con la caduta del regime di Assad, fa parte del passato. «Sono molto spaventato dal futuro: – ci dice Ahmed – ho due figli di 8 anni e spero possano rimanere in Siria per ricostruire il nostro Paese. Ma in questo momento – confida – vorrei aiutare entrambi a uscire dal Paese perché oggi non siamo più al sicuro».

Foto copertina: ANSA / AHMAD FALLAHA | Un’immagine aerea scattata da un drone mostra membri delle forze di sicurezza siriane che pattugliano Qardaha con armi pesanti in Siria, 10 marzo 2025

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