Perché Giuseppe Conte non dice il vero sugli accordi di Istanbul per la pace in Ucraina


Sugli accordi di pace per il conflitto ucraino, intervistato da Corrado Formigli a Piazzapulita (La7), il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte fa chiaramente intendere che Vladimir Putin abbia il diritto di dettare alcune condizioni piuttosto che subirle, poiché starebbe vincendo la guerra «sul terreno». Tuttavia, Conte omette di menzionare il fatto che il Cremlino era inizialmente convinto di poter conquistare militarmente l’intera Ucraina in pochi giorni, come dimostrato dall’incredibile annuncio dell’annessione pubblicato automaticamente dall’agenzia stampa russa RIA Novosti appena due giorni dopo l’inizio dell’invasione. Inoltre, Conte ripropone la narrazione filorussa sui cosiddetti “accordi di Istanbul”, secondo cui l’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina avrebbe potuto concludersi se Boris Johnson non fosse intervenuto per farli saltare. Peccato che la stessa fonte alla base di questa convinzione smentisca Giuseppe Conte.
Il botta e risposta con Formigli
«C’è il rimpianto». Inizia così l’intervento davanti a Formigli sui cosiddetti “accordi di Instanbul”: «Se avessimo raccolto quel tavolo negoziale, con quelle condizioni che erano state già delineate subito dopo l’aggressione, quando c’è stato nel marzo del 2022, un mese dopo, dove si precipitò Boris Johnson, con un viaggio peraltro avventuroso per arrivare in tempo, per bloccare tutto».
Il conduttore, nel sentire questa versione della storia sostenuta dal leader del Movimento 5 Stelle, ricorda un particolare molto importante: «Lei lo sa che non c’erano le garanzie di sicurezza per l’Ucraina neanche allora. Anche quella era tregua, una pace a grande vantaggio di Putin». Giuseppe Conte, però, non risponde sul punto: «Guardi, le garanzie di sicurezza vanno definite nell’ambito di un confronto negoziale, ma le migliori garanzie di sicurezza sono, voglio dire, cercare di costruire un percorso negoziale che sfoci in un trattato, e cercare di restaurare e recuperare la Russia con tutte le difficoltà del caso in prospettiva nella comunità internazionale».
La fonte di Conte
Formigli, a quel punto, pone una semplice domanda: «Lei è convinto che siano stati Johnson, Biden e anche Zelensky a non volere in nessun modo un accordo?». «Non lo dico io, lo dicono i ricercatori e studiosi» risponde Giuseppe Conte. Chi sarebbero questi studiosi? A quale fonte attinge l’ex Presidente del Consiglio e leader del Movimento 5 Stelle per sostenere la sua versione dei fatti? Per scoprirlo, è sufficiente riprendere un altro suo intervento trasmesso durante la puntata di Otto e mezzo (La7) del 6 giugno 2024 (dal minuto 18:06): «Rispondo con i fatti concreti storici! Il Foreign Affairs ha pubblicato documenti inediti: all’indomani dell’aggressione di Putin c’era un tavolo di pace. Che è successo? Johnson si è precipitato a Kiev. I falchi di Washington e Londra hanno detto “no al negoziato, noi vinceremo sul piano militare”».
Perché Foreign Affairs smentisce Conte
La fonte di Giuseppe Conte, i «ricercatori e studiosi» di cui si fiderebbe, sarebbe proprio l’autorevole rivista americana Foreign Affairs. L’articolo di riferimento è quello pubblicato il 16 aprile 2024, intitolato “I colloqui che avrebbero potuto porre fine alla guerra in Ucraina” (“The Talks That Could Have Ended the War in Ukraine”), in cui si legge chiaramente: «Tuttavia, l’affermazione secondo cui l’Occidente abbia costretto l’Ucraina a tirarsi indietro dai colloqui con la Russia è infondata» («Still, the claim that the West forced Ukraine to back out of the talks with Russia is baseless»).
Foreign Affairs racconta del viaggio a Kiev di Boris Johnson, evidenziando come Vladimir Putin abbia sfruttato e manipolato a suo favore le parole del negoziatore ucraino Arakhamia per incolpare l’Occidente di aver fatto saltare i colloqui.
La passeggiata
Come spiegato all’inizio di questo articolo, anche i ricercatori di Foreign Affairs sottolineano che Putin si aspettava di conquistare l’Ucraina con facilità, come se fosse «una passeggiata», salvo poi ritrovarsi di fronte a una realtà ben diversa («La guerra lampo di Putin era fallita» si legge nell’articolo). L’analisi suggerisce che i vari tentativi di negoziato abbiano segnato l’abbandono, da parte del Cremlino, del piano di conquista totale dell’Ucraina e della sostituzione di Zelensky con un governo fantoccio. Il primo tentativo di trattativa avvenne il 28 febbraio 2022 in Bielorussia, appena due giorni dopo il grottesco annuncio sull’annessione mai avvenuta. In quell’occasione, la Russia pretese la capitolazione dell’Ucraina come condizione per porre fine al conflitto.
Le garanzie di sicurezza
Gli ucraini chiedono garanzie di sicurezza che impediscano alla Russia di tentare una nuova invasione. Del resto, come spiega sempre Foreign Affairs, Kiev ha già vissuto un’amara esperienza con il Memorandum di Budapest del 1994, quando l’Ucraina rinunciò alle armi nucleari ricevendo in cambio la promessa che la Russia non l’avrebbe mai attaccata. L’invasione iniziò due decenni dopo con l’occupazione della Crimea.
I colloqui proseguirono con un incontro avvenuto il 29 marzo 2022 a Istanbul, che per i ricercatori di Foreign Affairs sembrava avere un potenziale rivoluzionario. Tuttavia, gli stessi studiosi spiegano le diverse variabili che resero difficile il raggiungimento di un accordo di pace. Da una parte, l’esercito russo fu costretto a ritirarsi da diversi fronti, dimostrando «che la tanto decantata macchina militare di Putin poteva essere respinta». Inoltre, questo ritiro portò, all’inizio di aprile, alla scoperta delle atrocità commesse dall’esercito russo a Bucha e Irpin. Nonostante ciò, i colloqui continuarono.
Le bozze dell’accordo
Arriviamo al contenuto delle bozze dell’accordo ottenute e analizzate da Foreign Affairs. Gli stessi ricercatori spiegano che queste non avevano risolto alcune questioni chiave per il raggiungimento di un’intesa per la pace. Nella bozza del 12 aprile, era chiaramente specificato che gli Stati garanti della pace avrebbero deciso autonomamente se intervenire in aiuto di Kiev in caso di un ulteriore attacco russo. Nella bozza del 15 aprile, l’ultima, «i russi tentarono di sovvertire questo articolo cruciale», insistendo sul fatto che l’aiuto a Kiev sarebbe dovuto avvenire solo «sulla base di una decisione concordata da tutti gli Stati garanti».
Una condizione che avrebbe favorito enormemente la Russia in caso di un nuovo tentativo di conquista, soprattutto perché avrebbe avuto un diritto di veto. Infatti, tra i garanti per la pace veniva indicato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di cui fa parte la stessa Russia. Insomma, una totale cancellazione delle garanzie di sicurezza ai danni di Kiev e della cultura ucraina.
Le altre richieste
Come se non bastasse, ulteriori richieste stendevano un tappeto rosso per una futura invasione russa. Tra queste c’era il ridimensionamento delle difese militari ucraine. Kiev voleva garantirsi un esercito di 250.000 uomini in tempo di pace, mentre Mosca pretendeva di imporre un massimo di 85.000. In pratica, un numero significativamente inferiore rispetto alle forze permanenti che l’Ucraina aveva prima dell’invasione del 2022, spiegano i ricercatori di Foreign Affairs. Anche il numero dei mezzi militari era stato messo in discussione, con Mosca determinata a rendere l’esercito ucraino talmente debole da non poter garantire nemmeno un livello minimo di sicurezza.
Le clausole
Infine, Foreign Affairs rivela che nelle bozze furono inserite clausole in cui la Russia pretendeva dall’Ucraina la revisione di alcune leggi nazionali, nonché l’abrogazione di normative «riguardanti aspetti controversi della storia dell’era sovietica». Un tentativo, da parte del Cremlino, di ottenere un’altra forma di conquista: la cancellazione di alcune politiche ucraine sulla memoria storica del Paese nei confronti dell’ex Unione Sovietica. Di queste vicende ne aveva parlato anche il New York Times con un articolo del 15 giugno 2024, appena un anno fa, ma Giuseppe Conte parla di Boris Johnson.