La ministra Roccella e i diritti delle persone trans: «No alla discriminazione delle donne in favore di chi si autodefinisce tale» – L’intervista


Pubblichiamo un estratto dell’intervista di Greta Ardito alla ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella pubblicata sul nuovo numero della rivista Eco, diretta da Tito Boeri, in edicola da oggi 15 marzo.
Negli ultimi anni, l’occupazione femminile in Italia ha mostrato segnali di crescita. Tuttavia, nonostante questi progressi, permangono significativi divari di genere nel mercato del lavoro italiano. Il tasso di occupazione femminile rimane inferiore di oltre 15 punti percentuali rispetto a quello maschile. Inoltre, secondo un recente rapporto dell’INAPP, il 64% delle persone inattive è costituito da donne, principalmente a causa di responsabilità familiari e di cura. In termini contrattuali, poi, le donne sono più frequentemente impiegate con contratti a tempo determinato e in posizioni part-time. Quali sono le vostre priorità?
«Il lavoro femminile è stato fin da subito fra le nostre priorità, e i dati ci confortano sulla strada intrapresa. Con il governo Meloni è stato registrato un doppio record sull’occupazione delle donne: sia in termini percentuali, sia in numeri assoluti con il superamento del tetto delle 10 milioni di occupate, e c’è un miglioramento pure sulla stabilità dei contratti. Anche questo è un tetto di cristallo, e non credo sia un caso che a sfondarlo sia stato il primo governo italiano guidato da una donna. Ovviamente, in particolare su un tema come questo, ogni passo compiuto non è un traguardo ma un punto di partenza. Ci sono ancora divari da colmare. Ma, come ho già detto, il nostro metodo è la valutazione empirica dell’efficacia delle politiche e la trasversalità dell’azione, che non si limita al mio ministero ma attraversa tutte le azioni del governo. Su questo fronte, ad esempio, siamo intervenuti con la decontribuzione per le mamme lavoratrici, con gli sgravi per le assunzioni, con l’agevolazione dei servizi (aumento del bonus nido) e il potenziamento dei congedi (aumento dal 30 all’80% della retribuzione per i primi tre mesi), con il coinvolgimento delle imprese (vedasi codice e certificazione di parità), con la riforma degli incentivi che riconosce la qualità e quantità del lavoro femminile come parametro premiante. Per ottenere risultati serve un approccio sussidiario e c’è bisogno, come abbiamo detto, di un cambio culturale, per rivedere modelli organizzativi a lungo tarati sulle esigenze maschili e poco permeati dal tema della conciliazione. Lo scopo non è spingere le donne a fare qualcosa, ma renderle libere di fare ciò che desiderano».

È vero però che, ancora oggi, la nascita del primo figlio segna un punto di svolta per le carriere delle donne: circa una lavoratrice su cinque abbandona il proprio impiego, mentre un fenomeno analogo non si osserva per i padri. Un aiuto può arrivare dal potenziamento degli asili nido. Il Pnrr (rimodulato) ha destinato 3,24 miliardi di euro agli asili nido, con l’obiettivo di creare 150.480 nuovi posti. Tuttavia, l’attuazione del piano ha incontrato diverse difficoltà. Al 9 dicembre 2024 secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio risultava utilizzato solo il 25,2%. Il governo si impegna a realizzare l’obiettivo iniziale?
«Il governo ha messo in campo oltre un miliardo aggiuntivo rispetto ai 3 del Pnrr, è venuto incontro alle esigenze degli enti locali, ha fatto fronte ai rincari energetici e delle materie prime. Come ha spiegato anche il ministro Foti in Parlamento, sui 3.627 interventi autorizzati sono già oltre 3.200 quelli attivati, e il ministero dell’Istruzione sta valutando la possibilità di un eventuale nuovo bando. La filiera intera prevede diversi attori anche sul territorio e non è tutta nelle mani del governo. Ma anche le situazioni di maggiore criticità sono state costantemente accompagnate, fin dove ovviamente il governo può intervenire. I numeri parlano chiaro, tanto è vero che lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha formulato un ventaglio di ipotesi finali differenti, fra cui una che prevede il pieno raggiungimento del target di posti, e una intermedia al 90%».
Uno dei problemi è che i comuni meridionali, dove di investire in asili nido c’è più bisogno, temono di non avere risorse per coprire le spese di gestione degli asili (soprattutto gli stipendi degli insegnanti) una volta che entreranno in funzione. Si tratta di spese tutt’altro che irrilevanti, attorno a mezzo miliardo per l’insieme dei comuni. Come intende il governo garantire la sostenibilità economica di questi servizi nel lungo periodo?
«Due terzi dei progetti presentati riguardano il Sud Italia, e questo è un fatto. Il governo ha già dimostrato a 360 gradi di avere molto a cuore la questione degli asili, tanto è vero che sul fronte dell’utenza, ad esempio, abbiamo alzato il bonus per il nido che ora è sostanzialmente gratis già dal primo figlio. In tanti luoghi, però, e nel nostro meridione in particolare, la richiesta di asili nido non è pressante, sia a causa di un minore tasso di lavoro femminile, sia grazie a reti parentali che ancora funzionano: insomma, i famosi nonni a cui tanto dobbiamo. Quindi a livello locale non c’è l’urgenza di rispondere a una domanda. Ma a maggior ragione serve fare gli asili, perché l’aumento dell’offerta può servire a stimolare la domanda e, in qualche modo, a incentivare il lavoro femminile. Può essere insomma la classica azione positiva».
Passiamo a un argomento diverso, ma in qualche modo legato. Negli Stati Uniti la cultura dell’inclusione – introdotta come risposta governativa alle discriminazioni storiche subite da gruppi diversi per etnia, genere, orientamento sessuale, età e disabilità – si è concretizzata ormai da decenni attraverso politiche e procedure che prevedono forme di preferenza nelle assunzioni, nell’assegnazione di appalti pubblici e in altri ambiti di welfare sociale. È apparso chiaro fin dalle prime ore della sua presidenza che Donald Trump ha fatto della lotta alla DEI una priorità assoluta. Secondo lei come è arrivato un impianto normativo che è stato costruito per garantire pari opportunità a essere percepito come un problema?
«Sono un ministro del governo italiano e parlo per l’Italia. In linea generale, però, il dibattito sull’inclusione è spesso viziato da una gran confusione. Basti pensare che le donne vengono trattate come una minoranza da tutelare, quando sono la metà dell’umanità, a cui è necessario garantire pari opportunità e non politiche di inclusione, classicamente rivolte alle minoranze svantaggiate. Oppure si confonde la non discriminazione, principio sacrosanto che si deve a ogni individuo, con la tutela di determinate categorie. Io credo che una società libera e democratica debba assicurare che nessuna persona sia discriminata, che ciascuno sia libero di realizzarsi, anche promuovendo il protagonismo di chi ha meno spazio; insomma che tutti siano accolti e messi nelle condizioni di realizzarsi. Non penso invece che sia molto utile questa ossessiva segmentazione delle persone in categorie. Se si ragiona per categorie, ci sarà sempre qualcuno che si sente escluso, e inoltre quando si negano elementari dati di realtà, finisce poi che questi si prendono la rivincita. Il self-id, cioè la possibilità di registrarsi all’anagrafe solamente in base all’auto-percezione, quindi potendo anche registrarsi come uomo mantenendo il proprio corpo di donna o viceversa, non ha niente a che fare con il rispetto per qualunque orientamento sessuale o per i transessuali. Trump del resto ha inaugurato la presidenza con una dichiarazione di guerra al self-id, ma lo ha fatto chiamando sul suo palco i Village People, un gruppo che è un simbolo per la comunità Lgbt+. Prima di giudicare, dunque, porrei molta attenzione alla cortina fumogena che la cultura woke ha eretto attorno al dibattito pubblico. Quanto a Trump, un politico europeo ha fatto un’affermazione che condivido: Trump può essere interpretato in due modi, o lo si prende alla lettera, o lo si prende sul serio. Io penso che sia meglio ricorrere alla seconda ipotesi».
Il nuovo numero di Eco, in edicola da oggi 15 marzo
Il nuovo numero di Eco, la rivista diretta da Tito Boeri, è dedicato al tema della discriminazione. La discriminazione è presente a tanti livelli nelle nostre società. È ingiusta, mina la coesione sociale e ci priva del contributo di risorse umane preziose nel mezzo del declino demografico dei paesi avanzati. È una discriminazione che prende di mira le donne, le minoranze etniche e religiose, le persone diverse in quanto a orientamento sessuale e apparenza fisica. In questo numero ci occupiamo in particolare della discriminazione contro le donne, le principali vittime dell’offensiva contro le politiche d’inclusione lanciata oltreoceano. Si è forse esagerato nella discriminazione positiva (quella fatta di “quote”), ma certo non possiamo tornare indietro di decenni, cancellando le conquiste sul piano dei diritti civili di questi anni. Cosa fare, dunque, per opporsi alla restaurazione e avanzare nel ridurre le disuguaglianze di genere?