Giorgia Meloni vista da Matteo Renzi: «Underdog? Macché, vi spiego perché è la più raccomandata»


Da oggi è in libreria il saggio di Matteo Renzi L’Influencer, Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A. Ecco un’anticipazione in esclusiva per Open:
Giorgia si è venduta come un’underdog. Ma chi, come me, ha iniziato l’esperienza politica più o meno contemporaneamente a lei sa bene che non stiamo parlando di una outsider quanto di una raccomandata. Anzi, la più raccomandata della Seconda Repubblica. Eh già: lei viene piazzata giovanissima da Fini alla vicepresidenza della Camera esattamente come Di Maio veniva piazzato da Grillo nello stesso ruolo. Giorgia Meloni è diventata giovanissima vicepresidente della Camera, con lo stesso percorso, identico, di Luigi Di Maio. Due leader (Fini nel primo caso e Grillo nel secondo) che scelgono il giovane o la giovane più brillante che hanno. Entrambi, Giorgia e Luigi, non hanno una carriera universitaria straordinaria o meriti professionali o pubblicazioni dall’alto valore culturale: non sono laureati, non hanno brillato nel lavoro, non hanno doti culturali strabilianti. Vanno bene in tv, sanno stare nei talk-show, usano i new media. Ma sono soprattutto i più brillanti fedeli (fino a quel momento) interpreti della volontà del loro capo. Non sono underdog, sono raccomandati. Raccomandati di ferro.

Meloni è, nella storia, la più giovane ministra, arrivata in quel ruolo senza aver preso un solo voto di preferenza, ma solo grazie al sostegno poderoso di Berlusconi e di tutto il gruppo dirigente di Alleanza Nazionale. Giorgia Meloni è talmente raccomandata da non fare in tempo a lasciare l’ufficio di vicepresidente a Montecitorio che già le si aprono le stanze di Largo Chigi come ministro senza portafoglio per la Gioventù. Imperdibili quegli anni, gli anni del berlusconismo galoppante. Non si ricordano battaglie di Giorgia contro il sistema, tutt’altro. I social rilanciano, anche in queste ore, il suo volto divertito e partecipe mentre Berlusconi, sul palco di un’iniziativa pubblica organizzata da Giorgia nella sua veste di ministra della Gioventù, ammira giovani ragazze e dice loro: «Siete così brave che meritereste di essere invitate al Bunga Bunga». Ma Berlusconi è potente e allora Giorgia ride. Ride a crepapelle. Finché il leader è forte, Meloni sta acquattata. E raccomandata.
Accetta di mettersi contro Berlusconi e Fini solo quando i due litigano e iniziano la loro parabola discendente. Non li affronta con le armi del rinnovamento generazionale quando sono potenti, come abbiamo fatto noi con quelli come D’Alema. No, lei si fa cooptare dagli uomini più potenti salvo poi abbandonarli nel momento del declino. Appoggia Fini e Berlusconi fin quando conviene. Poi li molla. E la cosa divertente è che la scissione che fa – raccontata come un atto di coraggio contro Forza Italia – è in realtà pagata da Forza Italia. Bonifico, trasparente. Meloni ha detto di essersi emancipata da Berlusconi, ma omette di dire che lo ha fatto con i soldi di Berlusconi. E si è ritrovata in Parlamento anche nel 2013, pur non avendo ottenuto il quorum, grazie all’elezione in un collegio sicuro garantita da Berlusconi. Quando dice a Berlusconi che lei non è ricattabile non so a che cosa si riferisca. So che verso Berlusconi dovrebbe avere soprattutto l’umiltà della gratitudine.
La narrazione della premier è quella di una donna che ha dovuto difendersi dagli uomini che la circondavano. Il padre che l’aveva abbandonata. I leader politici che l’hanno costretta a farsi un proprio partito. I vicepremier pasticcioni che la mandano in difficoltà. Il compagno farfallone che se ne esce con i fuorionda. I parlamentari incapaci di fare il proprio dovere: «Lascerò per colpa dell’infamia di pochi» scrive a un certo punto in chat.
Fateci caso: c’è sempre un maschio cattivo attorno alla giovane e coraggiosa underdog. È una costruzione falsa, in radice. Ma studiata a tavolino. Il capolavoro di un’influencer. Giorgia Meloni ha scientificamente ucciso il padre, politicamente parlando, a cominciare da Fabio Rampelli, che l’ha lanciata nella Serie A della politica. Fino a Gianfranco Fini, vero dominus della sua ascesa in Parlamento e al governo. Per terminare con Silvio Berlusconi, che l’ha scelta come ministra più giovane della storia italiana. Questo non significa non rispettare il coraggio che porta, nel 2012, La Russa, Crosetto e la stessa Meloni a fondare un partito. E nulla toglie alla fatica che Giorgia fa nel costruire una proposta credibile. Ma non si può dimenticare che nel 2013 lei non raggiunge il quorum e viene salvata – ancora una volta – dai collegi di Berlusconi. Se Giorgia torna a Montecitorio (dove è alla quinta legislatura, più o meno quanto Cirino Pomicino) non è grazie alle sue preferenze, ma alla raccomandazione di colui al quale deve molto.
Non tutto, certo. Ma molto, moltissimo. Questa narrazione a reti unificate per cui Meloni è la donna del coraggio funziona molto. È molto bella. Regala emozione. E rende impossibile non simpatizzare per questa giovane donna, autodefinitasi fuori dal coro, che si fa strada in un mondo di uomini che la ostacolano. È davvero tutto molto bello. Peccato che sia anche tutto molto falso. Perché gli uomini potenti hanno costruito la strada per Giorgia, l’hanno protetta, raccomandata, eletta, nominata. Finché lei li ha abbandonati quando non le servivano più. Anche se nessuno pare avere la forza di dirlo ad alta voce, io metto per iscritto qui che la nostra presidente del Consiglio è molto diversa. Diversa da quello che lei stessa ci ha raccontato in anni di certosina costruzione dell’immagine.
Ma diversa anche da quello che serve al Paese. Oggi l’Italia avrebbe bisogno di una svolta e invece tira a campare. Le riforme evocate sono buone solo per i titoli. Tutto è effimero. Che per chi ama il greco è una parola tremenda, efémeros, che dura un giorno. Anche le riforme di Giorgia durano un giorno, come le storie di Instagram. È finita che chi voleva fare la storia ormai fa solo le storie, sui social network.
E il paradosso è che l’opposizione sembra imbambolata, vittima sacrificale di questo incantesimo, incapace di reagire. Al massimo le solite polemiche trite e ritrite, già invecchiate prima di cominciare. Del resto è l’opposizione che, dividendosi, ha regalato ai Fratelli d’Italia il trionfo elettorale del 2022. O meglio: alle sorelle della Garbatella. Perché alla guida di questo Paese c’è un clan più che un partito, una famiglia piuttosto che un governo. Le scelte del Paese si decidono più nelle vacanze in masseria che non nei vertici a Palazzo Chigi.
Ma sembra sotto effetto di incantesimo anche la larga parte dei giornali, dei media, degli opinionisti. Dicono: eh, ma la Meloni è meglio di chi le sta accanto. Mi fanno impazzire i resoconti di certe cene radical chic nella Milano bene in cui le sciure spiegano che «Giorgia è l’unica presentabile del governo. Non la sopporto, ma se la paragono agli altri ministri mi sembra un genio». Ma dai. E che diamine, almeno quello.
Ti metti accanto Salvini e Tajani, Delmastro Delle Vedove e Sangiuliano: per forza sei meglio di loro. Ti piace vincere facile, diceva una pubblicità di quando eravamo piccoli. E poi, insistono i resoconti delle terrazze romane: «Almeno lei è una donna con le palle». C’è una scena cult nel film di Sorrentino La grande bellezza. È la scena in cui Toni Servillo, alias Jep Gambardella, dice: «Su “donna con le palle” crollerebbe qualsiasi gentiluomo». E inizia a elencare i difetti di Stefania, la presunta donna con le palle. Pezzo bellissimo, ambientato – non a caso – su una terrazza romana.
Bene. Quando sentiamo dire che Giorgia Meloni «è una donna con le palle» anche il gentiluomo che è in noi crolla. E diventiamo tutti Jep Gambardella. E iniziamo a parlare. Toccherà a noi, nel silenzio impaurito dei più, raccontare di come la presidente abbia addomesticato i media. Uno dei più grandi politici fiorentini, Niccolò Machiavelli, diceva che «governare è far credere». Meloni non ha bisogno di avere una squadra: ecco perché si è circondata di una corte di persone improbabili e di collaboratori imbarazzanti. Le basta, si fa per dire, avere un’opposizione ideologizzata e divisa. E le basta governare il racconto. Governare è far credere.