Centri al collasso, regole non condivise e il rebus dell’età: dentro il caos dell’accoglienza dei minori stranieri in Italia – L’inchiesta


«Sono scappato da una comunità nel Sud Italia perché mi avevano detto: “Vieni a Milano, troverai lavoro” e invece mi sono ritrovato per strada e senza un posto dove andare a dormire». Mohammed (nome di fantasia) è arrivato in Italia da minorenne. Ha lasciato la mamma e i suoi quattro fratelli più piccoli in Egitto ed è partito alla volta dell’Europa per contribuire al sostentamento della famiglia dopo la morte del papà. Destinazione: Lampedusa. Un viaggio drammatico, che lo porta prima nei campi di detenzione in Libia – «Hai subito torture?», gli chiediamo. «No», risponde, senza aggiungere altro – e poi in mezzo al mare. Con un’imbarcazione di fortuna arriva in Sicilia: il Mediterraneo oggi è per Mohammed solo un «brutto ricordo». Viene preso in carico da un Centro di accoglienza straordinario (Cas) ad Agrigento, ottiene i documenti ma non riesce a trovare un lavoro e scappa. Il suo obiettivo è Milano, dal capoluogo lombardo – racconta a Open – l’hanno contattato con la promessa di una remunerazione alta. «Sta partendo un cantiere qui, ci servono lavoratori e paghiamo bene», gli dicono. Una volta raggiunta la città i suoi contatti spariscono, e Mohammed si ritrova per strada.
I numeri (alti) e la richiesta del permesso di soggiorno
In Italia ci sono circa diciottomila minori stranieri non accompagnati (Msna). I più sono uomini, egiziani come Mohammed, spesso adolescenti o preadolescenti. Tra loro c’è chi, come lui, passa per l’inferno dei centri di detenzione in Libia e sbarca sulla coste siciliane. Chi invece raggiunge la penisola via terra, attraverso la rotta balcanica o la frontiera di Ventimiglia. Quasi tutti raccontano di aver subìto torture e violenze durante il viaggio. Stando ai stando ai dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sono sempre più coinvolti nelle migrazioni. «Negli ultimi anni sono arrivati minori che hanno anche 12-14 anni e molti di loro hanno alle spalle percorsi migratori importanti ed esperienze di vita o di strada molto drammatiche», spiega a Open Giuliana Savy, consulente legale per Comunità Nuova, un’associazione che opera nel campo del disagio e della promozione delle risorse dei più giovani. «Questi ragazzi – prosegue l’avvocata – sanno che se arrivano in Italia da minorenni possono entrare regolarmente nel Paese: è una delle pochissime strade per ottenere il permesso di soggiorno». Ogni minore straniero che raggiunge l’Italia solo ha il diritto di rimanere nel territorio: non può essere respinto alla frontiera, l’espulsione può avvenire solo in casi eccezionali legati alla sicurezza pubblica o dello Stato e può richiedere il permesso di soggiorno per il solo fatto di essere minorenne o per motivi familiari. Documento che deve essere convertito – a determinate condizioni – una volta raggiunta la maggiore età.
L’arrivo in Italia: dentro o fuori?

La Lombardia è la seconda regione, dopo la Sicilia, con la maggiore incidenza di minori stranieri non accompagnati, e Milano rappresenta un polo d’attrazione. «È un flusso che arriva principalmente dall’Egitto – prosegue l’avvocata -, spesso tramite il passaparola». Tanti minori sono però soltanto in transito: il capoluogo lombardo è una meta del viaggio che li condurrà in altri Stati. «Su 150 ragazzi che abbiamo monitorato a Milano negli ultimi mesi, 90 erano transitanti», ci dice Maurizio Pitozzi, volontario dell’associazione Naga, che fornisce assistenza sanitaria, sociale e legale ai cittadini stranieri. Alcuni di loro, dunque, non vogliono essere identificati, né essere accolti perché hanno progetti diversi. «Mentre altri – precisa Pitozzi – ci chiedono di poter entrare nel sistema di accoglienza istituzionale, ma qui cominciano gli ostacoli».
Le associazioni che operano in strada li intercettano specialmente di sera quando i servizi per minori del Comune, che deve farsi carico di questi ragazzi, sono chiusi. «Ed è molto difficile affidarli alle forze dell’ordine, come prevede la normativa, – ci spiegano dal Naga – perché spesso gli agenti dichiarano di non avere spazi idonei. Manca un protocollo d’intesa tra prefettura, forze dell’ordine e Comune». Il rischio è la dispersione o l’incontro con persone malintenzionate. Esistono, inoltre, altri problemi relativi all’identificazione in un Paese diverso dall’Italia: «Se un minore fa il primo ingresso in un altro Stato e viene identificato lì, poi scappa e arriva in Italia non può essere eventualmente preso in carico dal nostro sistema di accoglienza», ci dice Piero Buretti, educatore in un centro Sai che ha sempre lavorato con i Msna. «E questo – continua – è un grosso ostacolo burocratico».
Come funziona il sistema di accoglienza dei minori non accompagnati
I minori che arrivano in Italia senza figure di riferimento dovrebbero essere inizialmente ospitatati nelle strutture di prima accoglienza e successivamente trasferiti nei centri Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), gestiti dagli enti locali, dove possono ricevere un supporto psicologico e sociale adeguato e beneficiare di programmi di integrazione educativa e professionale. Nel caso di arrivi consistenti – situazione ormai diventata la normalità – i prefetti possono attivare strutture temporanee esclusivamente dedicate ai minori (Cas minori) all’interno delle quali sono garantiti soltanto i servizi di base, inadatti a rispondere alle esigenze e ai bisogni di ragazzi per periodi più lunghi. Eppure, la presenza e permanenza di minorenni stranieri soli in questi centri pensati per una situazione di emergenza – denunciano Openpolis e ActionAid nel report Accoglienza al collasso – sembra essere la prassi in Italia. «Sebbene siano in aumento i minori nei centri Sai – si legge nel rapporto – bisogna registrare nel 2023 una crescita del 177% delle presenze in Cas per Msna rispetto all’anno precedente».
La normativa vigente, approvata dal governo Meloni, apre anche alla possibilità che i minori di età uguale o superiore ai 16 anni trovino accoglienza nelle strutture per adulti. «È una cosa impensabile – afferma la legale Savy – che reitera quel senso di non appartenenza e poca corrispondenza dei bisogni che i ragazzi esprimono. Si tratta di un contesto che non li conosce e riconosce, e che può esporli a rischi di violenze e abusi». Secondo i dati ottenuti dal progetto In limite di Asgi, risulta che a fine 2023 più di 700 minori erano ospitati in centri di accoglienza straordinaria per adulti, nonostante nelle strutture Sai risultino non utilizzati in media 127 posti nello stesso anno. «Se prima c’era una possibilità di accesso ed eventualmente servizi di accoglienza differenti, maggiormente strutturati e anche pronti ad accogliere questi minori – precisa l’educatore Buretti -, adesso c’è una grossissima fatica. Sarebbe da indagare se sono i servizi che non hanno più la capacità ricettiva per i tanti arrivi, o se sono i ragazzi che non si fanno più intercettare».
Le Regioni vanno spesso in ordine sparso
Sebbene ci sia una normativa nazionale sull’accoglienza dei minori stranieri soli, le regioni – che da tempo denunciano mancanza di risorse e spazi adeguati – vanno spesso in ordine sparso. Due giorni fa, il Friuli Venezia-Giulia ha approvato un emendamento per limitare l’apertura di nuove strutture e per negare, di fatto, l’accoglienza a quelli provenienti da altri regioni. Una decisione che è stata definita «illegittima» dalle associazioni del territorio. Esistono, tuttavia, altri percorsi per l’accoglienza dei Msna: la legge Zampa del 2017 ha introdotto la figura del tutore volontario, un privato cittadino disponibile a esercitare la rappresentanza legale di un minorenne arrivato in Italia senza adulti di riferimento. Ma il numero dei tutori iscritti ai tribunali per minorenni è scarso rispetto alle esigenze poste da un fenomeno in crescita. La Puglia ha firmato giovedì scorso un protocollo d’intesa che riconosce, per la prima volta, un rimborso fino a 900 euro a chi decide di ricoprire questo ruolo. Mentre risulta scarsamente applicato il ricorso all’affidamento familiare, promosso dalla stessa norma come prioritario rispetto alle strutture.
I diritti (negati) al compimento del 18esimo anno d’età

Chi entra nel sistema di accoglienza istituzionale da minorenne, al compimento del 18esimo anno d’età deve cavarsela da solo. La legislazione prevede, infatti, numerose tutele che tuttavia decadono da maggiorenni. «È difficile pensare che questi minori, con il loro background migratorio e le loro vulnerabilità, possano essere autonomi al compimento della maggiore età – ci spiega la legale -. Continuare a tenere il confine tra 18 e 19 anni è ridicolo, dovrebbe essere rivisto. Bisogna lavorare su percorsi di inclusione più lunghi se si vuole veramente investire sull’integrazione», afferma ancora l’avvocata Savy. Uscire dal sistema significa essere autonomi: avere un lavoro, essere in grado di sostenersi, e avere soprattutto un’abitazione. «Escono dal sistema e sono abbandonati a loro stessi», afferma. E preda, spesso, della criminalità. Sono però previste delle eccezioni: la normativa vigente prevede lo strumento del prosieguo amministrativo, ovvero la possibilità di continuare il percorso di accoglienza fino a 21 anni (la decisione deve essere approvata dal Tribunale dei minori). «Ma le richieste – soprattutto da parte di egiziani – sono tante, e spesso non vengono approvate. Circa 2/3 dei neo maggiorenni ricevono esito negativo, e non sappiamo che fine fanno», spiega Pitozzi del Naga.
La storia di Ahmed
Anche Ahmed (nome di fantasia), diciottenne, è fuori dal sistema di accoglienza. Maltrattato in famiglia, a 16 anni decide di lasciare l’Egitto con l’intento di raggiungere l’Italia. Come Mohammed, deve passare anche lui per la Libia. E tutti sanno «cosa accade in quel Paese». Eppure, questa consapevolezza non lo ferma. Supera il confine, ma si accorge di non avere abbastanza soldi per tentare il viaggio che lo condurrà dall’altra parte del Mare. Così, comincia a lavorare. «Sono stato sfruttato», dice. «Mi hanno dato un terzo di quello che mi spettava». Prova a ribellarsi, ma finisce nei campi di detenzione. Con Adbul (altro nome di fantasia) prova a scappare, ma viene scoperto. E il suo amico, che ha cercato di fuggire da quell’inferno con lui, viene torturato sotto i suoi occhi. E, gambizzato, non riesce ad affrontare il viaggio della salvezza che avrebbe dovuto condurlo in Europa. Ahmed invece si decide e, pochi giorni dopo, parte. L’imbarcazione con la quale riesce ad attraversare il Mediterraneo raggiunge la Sicilia. Qui, viene identificato in un hotspot e – come da prassi – entra nel Cas dal quale però scappa. Vuole andare a Milano: è convinto che troverà un lavoro. Ma non ha contatti: nel capoluogo lombardo è costretto a dormire per strada. Per sopravvivere comincia a rubare. Piccoli furti che gli consentono di mangiare, ma entra nel circuito penale. Per lui si aprono le porte del carcere Beccaria di Milano.
Chi non entra, chi abbandona
I minori che escono o non entrano nel sistema di accoglienza e quelli che sfuggono ai servizi sono i più fragili. «Spesso vivono in condizioni di marginalità, che possono sfociare nell’adesione a circuiti criminali – spiega Savy -. Può capitare che incontrino chi promette: “Raggiungi l’Italia, ti do 200 euro a settimana”. Loro ci “cascano” e vengono poi inseriti in tutto quel sistema di sfruttamento lavorativo che può condurli anche in carcere». Negli ultimi anni si è, inoltre, verificato un cambiamento tra i minori stranieri che partono. «Se un tempo venivano in Italia i figli più grandi sui quali i genitori riponevano tutte le speranze per un’eventuale emancipazione anche familiare, adesso partono quelli che vivono già ai margini nel proprio Paese d’origine – afferma Buretti -. Quindi arrivano già sradicati e fanno fatica da soli a introiettare quello che può essere uno schema di regole di vita in un contesto culturale diverso rispetto a quello da cui provengono», afferma.
Prima i ragazzi avevano come fragilità più grande quella di essere sradicati dal contesto di provenienza e dai legami familiari. «Oggi, invece, abbiamo molto spesso a che fare – continua l’educatore – con minori che presentato anche disturbi psichiatrici causati da ciò che hanno subito nei loro Paesi o dal viaggio che li ha condotti in Italia, e con problemi di dipendenze o di salute». Ma si tratta anche di giovanissimi «che provengono da contesti con una concezione economica della vita diversa dalla nostra», afferma Nicolas Bongermino, educatore dei giovani adulti del carcere di San Vittore. «Molti aspirano a diventare più ricchi e spesso anche velocemente o a tutti i costi. Poi, subentra tutto un discorso di immagine, che viene proiettata nel Paese d’origine: mi vesto in un certo modo, ostento una certa apparenza. Ad esempio – prosegue l’educatore – la foto davanti al Duomo di Milano, che poi inviano ai propri familiari, può essere vista come una sorta di riconoscimento dell’eventuale successo del loro percorso migratorio».

Un futuro diverso per i minori stranieri
La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, ratificata dall’Italia due anni dopo, riconosce come diritto fondamentale «l’ascolto delle opinioni dei minori nei processi decisionali che li riguardano». Questo deve valere anche per i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia. «A volte non ci rendiamo conto che davanti a noi ci sono dei ragazzi, che hanno bisogno di una figura di riferimento che li accompagni verso l’età adulta e che li aiuti a vedere che esiste una prospettiva di vita diversa – dice la legale Savy -. L’unica cosa che è vera è che sono diventati più violenti, più arrabbiati. Ma anche perché sono spesso raccontati come “soggetti negativi”, e alla fine si rispecchiano in questa appartenenza, in questa categoria». E molto spesso gli “adulti” fanno fatica a mettersi in ascolto: «Il fatto di rubare una collanina, che è un reato e va punito, o gli atti di autolesionismo che vediamo in carcere sono tutti modi per comunicarci qualcosa», dice Bongermino. Quello che è certo è che la maggior parte di loro – come Ahmed e Mohammed – non ha intenzione di lasciare l’Italia. «Serve quindi una progettualità, è necessario costruire ponti per l’integrazione, anche perché questi ragazzi saranno le nostre generazioni future», precisa l’educatore. «Bisognerebbe fare investimenti sul sociale non solo nelle grandi città, dove c’è anche il privato che investe – prosegue -, ma anche nei piccoli centri». Ma oltre all’autonomia educativa, abitativa, lavorativa, elementi imprescindibili per l’integrazione dei Msna, è indispensabile lavorare anche sulla relazione. «Le figure di riferimento sono lontane e tutti loro, che affrontano un viaggio drammatico da soli e nell’età più complicata, sentono il bisogno di ritrovare un senso nelle relazioni».
Foto copertina: ANSA/HOTLI SIMANJUNTAK