Tre anni di congedo retribuito, nessun obbligo di frequenza e tv in regalo: i “furbetti del dottorato” delle aziende pubbliche italiane


Televisori in omaggio, iscrizioni senza obblighi di frequenza, e un vantaggio inestimabile: la possibilità, per i dipendenti pubblici, di ottenere un congedo retribuito fino a tre anni per conseguire un dottorato. Un’opportunità pensata per favorire la formazione e la ricerca, ma che rischia di trasformarsi in una falla del sistema pubblico. A puntare i riflettori sulla questione è l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, diretto da Carlo Cottarelli e affiliato all’Università Cattolica di Milano. La legge attuale consente ai lavoratori del settore pubblico di prendersi fino a tre anni di aspettativa retribuita per dedicarsi alla ricerca. I dipendenti a tempo indeterminato che fanno un dottorato senza borsa di studio, continuano a ricevere il trattamento economico come fossero ancora in servizio, compreso l’intero stipendio. Se, invece, il dottorato è finanziato con una borsa di studio, il dipendente non riceve più lo stipendio, ma mantiene la copertura previdenziale per la pensione. I requisiti per l’accesso di realtà all’estero e il monitoraggio del percorso accademico, però, hanno sollevato alcuni dubbi.
Dottorati e dottorifici?
Il diritto al congedo, come spiega l’Osservatorio, non dipende dal superamento di esami, dalla conclusione del corso o dall’obbligo di seguire le lezioni in presenza. Dipende unicamente dall’iscrizione a un dottorato di ricerca. Non sorprende, quindi, che negli ultimi anni sia fiorito un mercato parallelo di università telematiche e corsi all’estero che sfruttano queste condizioni a proprio vantaggio. Nella sua analisi, l’Osservatorio mette in evidenza come alcuni dottorati online non solo non prevedono obblighi di frequenza, ma in certi casi non richiedono nemmeno la conoscenza della lingua del Paese ospitante. Un meccanismo che rischia di trasformare i corsi in meri “dottorifici“, più attenti ad attrarre iscritti che a garantire un percorso di ricerca serio. Dall’Osservatorio fanno, inoltre, sapere che «non sono disponibili informazioni su quanti dipendenti pubblici beneficiano di questo congedo». E che i costi per lo Stato «potrebbero essere elevati: per ogni dipendente in congedo è necessario trovare (e pagare) un sostituto per l’intera durata del corso; il costo in più per la PA sarebbe di quasi 50mila euro annui, considerando lo stipendio e gli oneri previdenziali medi dei dipendenti pubblici».
Dottorato all’estero: come funziona
Il dottorato di ricerca è il massimo livello di istruzione universitaria e dura solitamente tre anni. In Italia, l’accesso avviene tramite concorso pubblico, bandito dalle università e dagli enti di ricerca, e i candidati possono essere ammessi con o senza borsa di studio. All’estero, invece, molti dottorati non prevedono un concorso pubblico e i criteri di selezione variano in base al Paese e all’istituzione. In molti casi, come riferiscono alcuni dottorandi, si paga una quota all’ateneo e, con un progetto di ricerca, si può accedere. Ma, proprio perché i requisiti di accesso e i programmi di studio all’estero differiscono da quelli italiani, per far riconoscere il titolo in Italia, bisogna passare attraverso una valutazione del ministero dell’Università e della Ricerca. L’esito può essere di tre tipi: riconoscimento pieno, non riconoscimento oppure riconoscimento condizionato al completamento di alcuni requisiti formativi. Non a caso, per attrarre studenti, molte realtà straniere includono nei loro pacchetti anche assistenza legale per facilitare il riconoscimento del titolo in Italia.
Tv in regalo per i nuovi iscritti: come si presentano i dottorati online
A facilitare l’accesso ai congedi retribuiti sono enti di formazione, convenzionati con le università all’estero, che pubblicizzano i loro programmi accademici puntando proprio su questo beneficio. Un esempio è l’Anteo Scuola Online, che propone un dottorato in Spagna tra le sue tante offerte, accanto a corsi di medicina all’estero e percorsi per panettieri. Sulla pagina informativa del corso, il congedo retribuito viene citato ripetutamente come un punto di forza. Per iscriversi, occorre una laurea magistrale, un progetto di ricerca assegnata da un professore che organizza il master, e la conoscenza della lingua spagnola almeno di livello B2. Quanto a quest’ultimo requisito è il corso stesso a prevedere un percorso di apprendimento linguistico intensivo e il supporto di un tutor bilingue. La frequenza? Non necessaria. Il sito chiarisce che «non sono previste lezioni, ma solo una continua attività di ricerca». E per rendere l’offerta ancora più allettante, in una pubblicità di qualche anno fa, che appare ancora in primo piano sui social dell’ente, la scuola promette ai nuovi iscritti un televisore da 55 pollici in regalo.

Dinamiche simili emergono in altre realtà, come l’Associazione «Pro Bono Pacis», che offre dottorati in Romania. Sul sito ufficiale, le uniche informazioni fornite riguardano la necessità di una laurea magistrale, la durata triennale del corso e la possibilità di ottenere il congedo. Nessuna indicazione su requisiti o modalità di svolgimento: per saperne di più, è necessario telefonare. Anche la società di formazione spagnola Sife segue lo stesso schema, pubblicizzando i suoi corsi con la domanda in homepage: «Perché fare un dottorato in Spagna?». La risposta è chiara: «Tre anni di congedo retribuito». E anche in questo caso «i corsi non richiedono un presenza costante in Spagna».


Le proposte per «limitare gli abusi»
Di fronte a questa situazione, l’Osservatorio ha proposto di introdurre criteri più stringenti per l’accesso al congedo. Tra le proposte vi sono l’obbligo di conseguire un determinato numero di esami e risultati accademici per mantenere il beneficio, la riduzione della retribuzione al 50% dello stipendio (o addirittura il ritorno alla normativa pre-2001, che non prevedeva alcun trattamento economico), e una maggiore discrezionalità per le amministrazioni pubbliche nel concedere il congedo.
L’esposto dei dottorandi al governo
Proposte che, però, non piacciono alle associazioni dei dottorandi, secondo cui il problema non andrebbe risolto limitando un diritto, ma correggendo le storture del sistema. «Le falle non riguardano solo l’abuso dei cosiddetti “dottorifici”, ma anche la carenza di tutele per chi accede al congedo e si ritrova spesso senza garanzie che gli spettano da parte della pubblica amministrazione», spiega a Open Davide Clementi, dottorando e segretario nazionale dell’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani (Adi).
Non è, infatti, tutto oro quel che luccica. Se da un lato l’offerta facile dei dottorati e il congedo retribuito sembra un’opportunità d’oro, dall’altro i lavoratori che ne hanno beneficiato si sono ritrovati con un’amara sorpresa. L’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani ha denunciato in un esposto al governo – rivolto al ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), al ministero dell’Istruzione e del Merito (Mim), all’Inps e alla Ragioneria di Stato – che molti dipendenti pubblici in congedo si sono ritrovati con buchi previdenziali e richieste di risarcimento improvvise.
Dai vuoti previdenziali ai risarcimenti improvvisi: l’amara sorpresa al rientro dal dottorato
Secondo la legge attuale (476/1984), lo Stato dovrebbe farsi carico dei contributi previdenziali dei dipendenti in congedo per dottorato. «Molte amministrazioni pubbliche ignorano questa disposizione, causando un vuoto contributivo che, in alcuni casi, porta a richieste di pagamento da parte dell’Inps nei confronti dei lavoratori stessi», denuncia Clementi. «Abbiamo ricevuto numerose segnalazioni da dipendenti a cui non sono stati versati i contributi, e in alcuni casi è stato addirittura chiesto loro di pagare di tasca propria le quote previdenziali mancanti», aggiunge. «Quando rientrano in servizio, alcuni lavoratori scoprono che i contributi non sono mai stati versati e si trovano di fronte a trattenute stipendiali arbitrarie o richieste di risarcimento per migliaia di euro».
Le richieste dei dottorandi
Di fronte a questa realtà, l’Adi ha avanzato tre richieste alle istituzioni competenti: la verifica e la correzione delle posizioni contributive dei dipendenti pubblici coinvolti, l’annullamento delle richieste illegittime di pagamento e l’emanazione di direttive chiare affinché tutte le amministrazioni rispettino la legge. Anche i dottorandi concordano sulla necessità di contrastare i “dottorifici” che offrono percorsi di bassa qualità. «Il problema esiste ed è grave», riconosce Clementi. «Ci sono corsi che non prevedono esami, obblighi di frequenza o valutazioni serie. Ma la soluzione non può essere quella di limitare un diritto: bisogna invece garantire che venga esercitato correttamente».