Quei ragazzi che girano col coltello: «A 15 anni con un’arma in tasca sei tentato di usarla»


«Dopo il Covid anche ragazzi che normalmente non commettono reati vanno in giro col coltellino addosso. Un po’ perché fa figo, un po’ perché è aumentato in loro il senso di insicurezza. La loro risposta alla domanda “Perché lo fai?” è “Per difesa personale”». A parlare è Ciro Cascone, ex capo della Procura dei Minorenni di Milano, oggi avvocato generale della Corte d’Appello di Bologna. In un’intervista a La Stampa dice che «bisogna essere più severi sull’uso delle armi, sono sempre stato per la tolleranza zero. Ma attenzione: pensare di risolvere tutto con le norme penali, con i decreti Caivano, non funziona».
Ragazzi col coltello
Nel colloquio con Francesca Del Vecchio Cascone dice che non c’è una recrudescenza di reati commessi da minori: «I numeri dicono che sono abbastanza costanti. Semmai sono cambiate le tipologie. Dopo la pandemia, sono aumentati i reati in concorso, quelli commessi da due o tre persone. E soprattutto, c’è stato uno sdoganamento e un conseguente aumento dell’uso di armi, bianche soprattutto: coltelli, tirapugni e mazze». Ma secondo l’ex procuratore «Tra i giovanissimi c’è una grossa superficialità: vanno in giro con un coltello per sentirsi parte di un gruppo. Ma anche per avere la sensazione di poter difendersi da soli. Il problema è che quando hai 15, 16 anni, se hai un’arma in tasca e non sei in grado di gestirla – perché a quell’età non si ha la maturità per comprendere quali siano le conseguenze – sei tentato di usarla in qualsiasi contesto, anche per uno sguardo frainteso o per un diverbio con un coetaneo».
Furti e rapine
Diverso il discorso dei minori che escono di casa con l’idea di commettere una rapina o un furto: «L’arma agevola. Se parliamo di delinquenza minorile, a Milano le statistiche del 2023 dicevano che il 70-80% dei reati erano commessi con l’uso di un coltello. Ma una larga fascia di adolescenti non esce di casa con questa intenzione, però il coltello ce l’ha». Le situazioni in cui maturano certi comportamenti, sostiene, «sono molteplici: tanti nascono in un contesto di marginalità, di difficoltà sociale e familiare. Molti ragazzi vivono situazioni critiche, per cui non hanno dei punti di riferimento in famiglia, non hanno un progetto di vita definito. Per questi è facile seguire certe compagnie in un momento cruciale della costruzione dell’identità. Ed è un discorso che vale per italiani e stranieri indistintamente. Poi ci sono gli invisibili».
Gli invisibili
Ovvero i «minori stranieri non accompagnati che diventano “visibili” solo quando commettono un reato. E lo fanno perché pensano di non avere via d’uscita». E spiega: «Quando un giovane arriva a Milano, carico di sogni ma non ha accoglienza, opportunità, tutele, finisce per cadere nella rete della criminalità che gli darà un pasto e un letto ma gli chiederà qualcosa in cambio. Milano, come altre città, ha fatto molto negli anni per rispondere a queste esigenze. Ma non si può lasciare la gestione dell’accoglienza solo sulle spalle degli enti locali. Serve una regia nazionale, serve la prevenzione. Che però non si fa in una settimana o a suon di norme penali come il decreto Caivano».
Un investimento
E conclude: «La politica dovrebbe capire che si tratta di un investimento. Non solo sugli stranieri che arrivano. Partiamo con una mappatura della dispersione scolastica e proviamo a recuperare tanti di questi ragazzi italiani e soprattutto stranieri che vivono in Italia e riportarli a scuola. È la prima cosa: se oggi non hanno la capacità di pensare, di riflettere è perché non hanno una scolarizzazione adeguata».