Meg e i 30 anni di carriera underground: «I musicisti di oggi sono sfortunati. Geolier è il più bravo di tutti» – L’intervista


Un ep, tre tracce, tre versioni dello stesso brano, e una canzone che si intitola Maria, vero nome di Meg, cantautrice napoletana, tra le voci più avanguardiste e cariche di carattere del panorama musicale italiano. Un ep, Maria appunto, per festeggiare trent’anni di carriera, prima di partire per un tour celebrativo di sette date ad aprile. Trent’anni costellati di successi, specie nel circuito underground, prima con i 99 Posse, di cui è stata la voce femminile – quella memorabile di brani come Quello che e Corto circuito – poi da solista, regalando perle come Audioricordi, Distante, Fortefragile, Napolide, Imperfezione e Promemoria. Uno stile etereo, minimal, che rappresenta il futuro del cantautorato, un sound su cui molte giovani artiste, prendendo dichiaratamente ispirazione dal suo lavoro, si sono buttate. E che Meg propone da tre decenni.
30 anni di carriera, il primo pensiero che ti viene in mente…
«Che è stato tutto molto bello, molto intenso. Ovviamente ci sono stati momenti difficili, anche piccoli traumi. Ma, un po’ come dice Freud, quando uno fa la tara delle cose tende a ricordarsi le cose belle, quindi il resoconto di questi 30 anni è incredibilmente positivo. Posso dare una pacca sulla spalla alla Maria passata e dire: “Vedi? Alla fine ce l’hai fatta”»
Il momento più difficile?
«Ci sono stati momenti in cui non mi venivano riconosciute delle cose, forse in quanto ragazza o “ultima arrivata”. I livelli successivi della mia carriera me li sono dovuti conquistare ed è stata un po’ dura. Tante cose sono cambiate anche grazie a quella Meg, che ha resistito ed è riuscita ad ottenere una serie di riconoscimenti, e oggi sa di essere un punto di riferimento per altre ragazze. Ancora mi sorprende!»
I momenti più belli invece?
«Gli inizi forse. Era un periodo in cui letteralmente si sognava di cambiare il mondo e non c’era solo inconsapevolezza e spensieratezza, ma anche una certa concretezza. Il movimento di cui sentivo di fare parte riusciva a ottenere risultati: si scendeva in piazza in centinaia di migliaia, si chiedevano delle cose e a volte venivano date. All’epoca, forse per una questione etica, si prestava orecchio al dissenso. Eravamo una comunità – non una community come oggi – che creava dissenso, che è poi il seme della nostra democrazia. Senza dissenso c’è un regime, e il fatto che oggi i governi vogliano rendere il dissenso un atto criminale è a sua volta criminale»
Oggi si nota un certo distacco tra musica e impegno politico.
«Il problema non riguarda solo la politica o l’impegno sociale, c’è proprio un appiattimento di contenuti generali. Negli anni Novanta se un gruppo faceva un pezzo intimista, aveva contenuti profondi che toccavano il sociale. Oggi la sensazione è che ci sia una scollamento tra musica e attivismo politico. Noi giovani dell’epoca avevamo la fortuna di non avere i social, la globalizzazione era agli inizi, c’era ancora spazio per l’aggregazione fisica, nella vita reale. Oggi invece è diventato tutta apparenza, e devi apparire con canoni che piacciono all’algoritmo, per avere più follower e like: è tutta roba virtuale. Questi ragazzi, musicisti e no, stanno alle regole pensando che siano le regole della società, le dinamiche da seguire, perché nessuno gli spiega che non è così. Dalla politica alla scuola e alla famiglia, si fa fatica a dare ai giovani esempi di vita che siano reali, virtuosi. Al contrario, ci sono politici che istigano all’odio, al razzismo e al bullismo. Se hai dei politici così, è ovvio che i cittadini si comportino senza criterio etico e morale»
Una situazione che si riflette sui musicisti di oggi?
«Il musicista di oggi è sfortunato perché noi ai tempi guadagnavamo in maniera dignitosa anche se lavoravamo nel mercato alternativo. Vivevamo bene perché vendevamo i dischi, facevamo 200 concerti all’anno e guadagnavamo abbastanza per pagare affitto e vestiti. Un ragazzino che si affaccia oggi al mondo della musica non ha posti dove suonare, né dischi da vendere, solo stream non pagati su Spotify. L’unica speranza per lui è l’auto-sfruttamento sui social, darsi in pasto all’algoritmo. Per questo motivo tutto è diventato una serie di “Io, io, io, i soldi, il successo”»
Per quanto riguarda Spotify, hai dichiarato che «ha ucciso la musica»…
«All’epoca di Napster c’era chi non poteva permettersi di comprare la musica e utilizzava queste piattaforme per ascoltarla, ma quelli di Napster non guadagnavano in prima persona. Spotify invece guadagna la maggior parte dei soldi che dovrebbero andare agli artisti, che fanno tutto il lavoro. Perché i soldi che spettano a me devono andare a coloro che hanno inventato la tecnologia? Il problema è che i governi, le istituzioni, non hanno fatto le regole. Il diritto d’autore è un diritto inalienabile del musicista, Spotify sta andando contro la legge»
Se non sei su Spotify, non esiti.
«Prima di questi canali, la musica la ascoltavo lo stesso. Andavo nei negozi di dischi dove c’era qualcuno che magari conosceva i tuoi gusti e ti aiutava a scegliere la musica. Un giorno, ero in macchina con mio padre e in radio passano un pezzo. Ci guardiamo e ci diciamo “Ma chi è questa?”. Era Talkin’ Bout a Revolution di Tracy Chapman. Io e mio padre cambiammo strada per andare subito a comprare il disco. Oggi non è più così, Gigi D’Alessio mi ha fatto “schiattare dalle risate” quando qualche tempo fa ha detto: “Una volta vendevi un milione di dischi e ti compravi una casa, oggi con un milione di stream ti compri un caffè”. Aveva ragione»
Un’altra battaglia che hai combattuto riguarda la condizione della donna nella musica. Come l’hai vista cambiare in questi 30 anni?
«Quando ho cominciato a fare musica ero sempre l’unica ragazza presente in studio, sui palchi, ai festival, durante le riunioni in discografica. Piano piano sono spuntate ragazze qua e là, ora non si grida più allo scandalo se c’è una ragazza che scrive, compone, produce, fa la fonica o l’ufficio stampa. Spero di essere stata un riferimento per loro come altre donne lo sono state per me»
Quali?
«Laurie Anderson, per cominciare. Avevo 10 anni, la scoprii in uno spot contro l’aids. Fu la mia prima maestra. Alla fine degli anni Ottanta mi piaceva Siouxsie and the Banshees. Portavo i capelli neri cotonati per assomigliarle, era un periodo più dark. Grazie a mio padre, ho scoperto Billie Holiday, con quel suo timbro così sofferente, imperfetto. Immagino loro come saranno state ancora più sole di me»
Tutte artiste, in maniera diversa, un po’ di nicchia…
«Sì, forse non è un caso che parliamo di artiste underground, un ambito forse più accogliente. La verità è che io non ho mai bazzicato l’overground»
Perché?
«Se vuoi stare in quell’ambito devi fare dei compromessi con te stessa, la tua anima e la tua musica: è un altro tipo di business dove spesso la donna è resa oggetto. Forse oggi, in cui è tutto mescolato e l’overground rende pop l’underground, le cose sono cambiate in meglio»
Hai avuto la possibilità di lavorare con artisti esordienti?
«Qualche anno fa ho lavorato con Clementino in un pezzo che mi ha divertito. Poi adoro Ginevra, bravissima, un’altra che non fa molti compromessi. A breve faremo uscire un pezzo assieme»
Ci sono rapper che ti piacciono particolarmente?
«Il mio rapper preferito è Geolier, secondo me in Italia è il numero uno. Ha un flow pazzesco, mi piace come scrive. Il suo utilizzo del napoletano è poetico, forte, autentico»
Qual è stato l’incontro più interessante di questi 30 anni?
«Un personaggio memorabile che porto nel cuore è il Subcomandante Marcos, incontrarlo è stata una cosa incredibile. Portammo una turbina in Chiapas acquistata grazie ai soldi raccolti con i concerti. Lui seppe di questo gesto e ci volle incontrare. Ci portarono da lui di notte, si nascondeva nella selva. Mi ricordo che il percorso fu un po’ magico: camminavamo in questo sentiero, alzai lo sguardo e c’erano un milione di stelle. Abbassai lo sguardo e c’erano altrettante stelle, erano lucciole, sembrava di camminare nello spazio. Arrivammo da lui e con grande affetto ci ringraziò. Successivamente abbiamo fatto una marcia a Città del Messico con gli indigeni che chiedevano al governo di riavere le proprie terre. Si chiamava “Incontro Intergalattico”. Marcos organizzò questo incontro: eravamo 300 dall’Italia e finimmo per diventare la sicurezza del bus su cui viaggiava Marcos. È stata un’avventura incredibile, per me, ragazzina, Marcos incarnava il sogno che le cose si potessero cambiare»
Come mai hai scelto di celebrare i tuoi 30 anni di carriera con un ep con la stessa canzone in tre versioni diverse?
«Nasce dalla mia formazione “remix” anni Novanta, dall’idea che non esiste mai una sola versione di un pezzo e tutte queste versioni parlano di una parte di me. Per me poi, da ex studentessa di filologia dantesca, il 3 è un numero importante. Il titolo è Maria, leggermente autobiografico. Mi divertiva parlare di tre parti di me, apparentemente in antitesi. Probabilmente da musicista la cosa divertente è che con la musica riesci a far convivere parti diverse di te. C’è quella più evidente e più sfacciata, quella Drum and Bas, la versione più intimista, più malinconica e poi quella più emozionale, minimale, forse più napoletana»
A quale canzone del tuo repertorio ti senti più legata?
«In questo momento, forse perché una delle più recenti, è Principe delle mie tenebre, perché parla del mio gatto nero, che è un principe delle tenebre. È una canzone d’amore verso il mio gatto e verso la natura. Ho sempre sognato di avere dei gatti e durante la pandemia ne ho adottati due. È come se la natura fosse entrata nella mia vita, ricordandomi di essere un animale: i miei gatti mi hanno riportato con i piedi per terra»
Cosa ti resta da sognare dopo 30 anni così?
«Spero che la musica continui ad essere mia amica, che mi accompagni come ha fatto finora, come una sorella. Non c’è tra di noi un rapporto di sfruttamento reciproco, anzi, è veramente parte di me, è un’alleata, un’entità che da bambina mi ha aiutato ad aprirmi perché ero molto chiusa. La musica è stata uno strumento di apertura verso il mondo e spero che mi aiuti a farmi stare meglio. È una vera forma di terapia, mi ha fatto risparmiare un sacco di soldi d’analisi. Anche solo andare a ballare, fruirla, è qualcosa che mi salva la testa e mi fa stare bene»