Stellantis chiude in Messico e in Canada per strizzare l’occhio a Trump. E fa perdere 900 posti di lavoro dei fornitori in Michigan e nell’Indiana


Il mattino dopo lo show del Liberation Day in cui Donald Trump ha messo dazi a tutto il mondo per dare un segnale al presidente degli Stati Uniti il gruppo Stellantis guidato da John Elkann ha annunciato l’immediato stop della produzione negli stabilimenti dell’azienda in Canada e in Messico, con una loro chiusura temporanea annunciata ai dipendenti da una lunga mail firmata da Antonio Filosa, Chief Operating Officer Americas & Quality di Stellantis. Nelle 48 ore successive proprio in seguito a quella mail sono stati temporaneamente messi a casa 900 operai americani in Michigan e in Indiana. Lavoravano tutti per aziende di componentistica che rifornivano le auto prodotte da Stellantis in Messico e in Canada. Dunque, il giro di vite sui dazi che Trump ha scelto per riportare aziende e lavoro negli Stati Uniti come prima conseguenza ha avuto la perdita del lavoro di 900 operai americani. Qualcuno di loro era a Detroit, e chissà se faceva parte del gruppetto di metalmeccanici che il presidente Usa si è portato sul palco del Liberation day. Si spera che alla fine se Stellantis porterà in un nuovo stabilimento negli Usa le produzioni attualmente in Messico e in Canada quei 900 metalmeccanici temporaneamente “licenziati” potranno poi tornare al lavoro. Ma il caso, che per forza di cose non potrà essere di breve durata, la dice lunga su come possa essere un boomerang la scelta di Trump di dare l’assalto alla globalizzazione. Perché il mondo è maledettamente interconnesso, e in modo anche complicato. E sciogliere quella economia così intrecciata per cui un’auto americana è fatta di mille pezzettini diversi forniti da mezzo mondo e viceversa non è così semplice.
La storia della Luxit nel Michigan che decide a tempo record di chiudere in Cina
C’è un’altra piccola storia a Detroit, che è raccontata in un lungo reportage del Wall Street Journal nel Michigan sconvolto proprio da quei dazi. È la storia della Luxit di Farmington Hills, una quarantina di km da Detroit, media azienda di componentistica americana che produce e disegna luci per le automobili. Come tante altre aziende la Luxit produceva parte delle sue luci in Cina, dove il lavoro costa molto meno. Visti i dazi al 54% l’amministratore delegato del gruppo, Stephane Vedie, non ha pensato nemmeno a un secondo cosa fare. Subito ha chiuso una piccola linea di produzione in Cina e l’ha portata nel loro stabilimento in Tennessee. In Cina su quella linea venivano impegnati 8 operai. In Tennessee ne bastano due perché lo stabilimento è altamente automatizzato e si fa uso anche di intelligenza artificiale. Il manager ora sta pensando a come smontare il resto della produzione in Cina per portarla in Michigan, dove darebbe lavoro a 10 operai americani togliendolo però a una trentina di cinesi.

La vendetta della globalizzazione: un’auto Usa senza cinesi e Taiwan non si può fare
La piccola storia della Luxit, come in parte quella di Stellantis, racconta molto della globalizzazione che unisce in questi casi gli Stati Uniti a Canada, Messico e Cina. La scelta di andare a produrre all’estero dove costo del lavoro e servizi erano più favorevoli ha certamente tolto lavoro e insediamenti industriali nella madre patria. Ma con numeri enormemente più significativi ha dato da mangiare ad altri cittadini del mondo che spesso vivevano in povertà. La globalizzazione con tutti i suoi difetti ha ridotto molto la povertà nel mondo. E oggi in un caso piccolo come quello della Luxit per ridare un lavoro a 12 famiglie americane si toglie il cibo dalla tavola di 38 famiglie cinesi. Accadrà così ovunque, non solo in Cina. E sarà sempre un’arma a doppio taglio. Perché senza un pezzettino cinese o un semiconduttore di Taiwan quell’auto americana non si potrà costruire. E quindi non è affatto detto che quelle 12 famiglie americane cui punta Trump avranno davvero un piatto in tavola