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Caos dazi, Gagliardi (Kpmg): «L’alternativa non è la Cina, ma Golfo e America Latina. Così banche e governi potranno aiutare le Pmi» – L’intervista

09 Aprile 2025 - 08:01 Simone Disegni
Di fronte al «divorzio» storico Europa-Usa, è tempo per le aziende italiane di cambiare mentalità, spiega a Open il responsabile mercati della società di consulenza. E lo Stato può aiutarle

Prepararsi all’impatto. Di fronte ai dazi di Trump e al «divorzio» storico Europa-Stati Uniti, le aziende italiane devono iniziare seriamente a orientarsi su nuovi mercati per l’export. Ma non sarà la Cina, su cui tanto si concentrano in questi giorni le attenzioni dell’Ue, la soluzione. Gli sbocchi più promettenti per le nostre imprese sono se mai nel Golfo e Medio Oriente, in Africa, India e America Latina. Lo dice a Open Francesco Gagliardi, responsabile mercati di Kpmg, che alle scelte delle aziende nel disordine globale dedica oggi un convegno a Bologna con Ispi, Unicredit e Johns Hopkins University. Quanto al dilemma sul «che fare» per governi e istituzioni Ue, che oggi vareranno le prime controtariffe su prodotti Usa, il messaggio alla politica è chiaro: meglio togliersi fin d’ora dalla testa l’idea che tutto si possa risolvere – ancora una volta – distribuendo un po’ di finanziamenti a pioggia. Per un ecosistema ancora fortemente dominato da imprese medio-piccole, rimarca Gagliardi, a cambiare nel settore privato dev’essere in primis la mentalità, nel pubblico l’ambiente normativo.

Tra i trend che definiscono la nuova epoca, secondo la vostra analisi, va ormai annoverato il decoupling, il «disaccoppiamento» strutturale tra Europa e Usa.

«Ora i fari sono accesi sulle azioni dell’Amministrazione Trump, ma questa vicenda non nasce ora. La tendenza alla creazione di un sistema multipolare è iniziata da 10 anni. E già da un paio parlavamo regolarmente nei nostri report di una nuova frammentazione, di una globalizzazione a pezzi: dove quei pezzi erano e sono nuovi blocchi più o meno fissi che si creano sulla base di opportunità ed interessi, economici, politici, militari. Con i conflitti «caldi» degli ultimi anni (Ucraina, Gaza), è diventato chiaro poi un altro passaggio, e cioè che le ricadute non sono uguali per tutti, e divergono di conseguenza anche le risposte in termini di politica economica. Quanto a Europa e Usa, la divaricazione in termini di ambiente regolatorio e di mercato è iniziato già negli scorsi anni, quando l’Amministrazione Biden ha messo in campo l’Inflation Reduction Act (IRA) e l’Ue il Green Deal. Al di là delle differenze colossali di dotazione finanziaria, negli Usa si è scelto la strada dello stimolo diretto alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto, in Europa quello della definizione di un framework molto articolato e prescrittivo».

Tradotto, mentre gli Usa scioglievano le briglie iniettando miliardi nel sistema produttivo, noi il nostro lo abbiamo irrigidito?

«Corretto».

Ora però con la sberla dei dazi di Trump e tutte le relative incognite siamo al picco dell’incertezza. Quali sono le prime raccomandazioni che date alle imprese per navigarla?

Francesco Gagliardi, Partner e Head of Markets KMPG

«Prima il rischio era una cosa che un’impresa poteva gestire, perché c’erano attori verso cui esternalizzarli e strumenti di diritto per affrontarli. Ora il disallineamento tra ambienti normativi e operativi complica molto la gestione, e contemporaneamente emergono rischi nuovi a seconda del o dei «blocchi» in cui ci si muove: pensiamo ad esempio all’intervento dei governi sui commerci di materie prime, beni tecnologici o dual use per questioni di sicurezza degli approvigionamenti. In questo quadro, le raccomandazioni fondamentali che diamo in questo momento riguardano tre ambiti: gli sbocchi commerciali, le catene di fornitura, gli investimenti».

Partiamo dal commercio: si può pensare seriamente di rinunciare agli Usa come mercato di esportazione?

«No, oggi l’export verso gli Usa vale per l’Italia quasi 65 miliardi di euro, non è sostituibile tout court. Ma diversificare le rotte è un tema senza dubbio da approcciare: le aree in cui vediamo maggiori opportunità sono oggi il Golfo, il Medio Oriente, alcuni Stati dell’Africa, l’America latina, dove si trovano Paesi che hanno attraversato negli ultimi anni un’accelerazione di sviluppo molto importante e dove spesso c’è già una certa «familiarità» per rapporti consolidati anche di nostre aziende di Stato. Dopodiché ovviamente ogni nuovo mercato pone scommesse non scontate, sul breve, medio e lungo termine. Che tipo di presenza avere su quel mercato; con che struttura giuridica operare; come rimodulare il pricing di prodotti e servizi; come organizzare gli stock di merci e la logistica».

Nella lista non compare la Cina, di cui pure tanto si parla in questi giorni per il nuovo dialogo aperto dall’Ue di fronte alla minaccia comune dei dazi.

«La tentazione mi pare più figlia della relazione difficile con gli Usa che ora si sta attraversando sul piano geopolitico. Se vogliamo stare all’Asia, molti imprenditori guardano se mai più all’India».

Cosa deve cambiare invece riguardo alle catene di fornitura?

«Anche qui gli assetti sono da rivedere, e non è una novità degli ultimi giorni. Il concetto che molti dei nostri clienti vedono ormai di buon occhio è quello del friend-shoring. Ciò significa che per garantire la sicurezza e la resilienza degli approvvigionamenti devi idealmente a) diversificare; b) identificare delle geografie che per assetto culturale e normativo possano assicurarti le forniture».

E la produzione? Ha senso per le imprese italiane seguire le sirene di Trump e spostarne almeno parte negli Usa?

«Dipende molto dalle tipologie di catena del valore. Ma in generale decidere ora di delocalizzare negli Usa per evitare le tariffe mi pare una scelta affrettata. Trump lo stiamo imparando a conoscere ora, sappiamo che imposta i rapporti internazionali su un modello transazionale, ma anche la mutevolezza dei suoi orientamenti. Coi dazi mondiali vuole davvero imporre un nuovo paradigma economico che durerà anni o ha nel mirino essenzialmente la Cina e tutto il resto è camouflage aperto a negoziati? Nel dubbio, le scelte da compiere per noi sono più di medio-lungo termine: conviene aspettare che si depositi la polvere per capire. Ciò detto, nulla vieta di iniziare a fare analisi d’impatto su spostamenti di produzione in Usa o altri Paesi ad alta affinità sul piano culturale, normativo, di corridoi di rapporti».

Hanno a che fare col medio e lungo periodo anche le scelte di investimento.

«Qui sta l’aspetto forse più importante in quest’ottica. È essenziale ragionare non solo sul breve termine, ma mantenere il focus sugli investimenti davvero premianti. Sono e restano quelli sulla doppia transizione, energetica e digitale. Digitalizzare significa efficientare i modelli operativi. Decarbonizzare significa non solo allinearsi alle norme ESG, ma andare a rimuovere nel tempo la vera palla al piede del sistema Ue rispetto ad altri, ossia il costo dell’energia. Fonti rinnovabili, efficientamento, diversificazione delle rotte di approvvigionamento: tutto ciò porterà a consumare meno, inquinare meno, quindi pagare meno. Nel medio-lungo periodo sono questi gli investimenti premianti in termini di efficienza».

Unendo i puntini, quindi, lei dice: è vero che il Green Deal Ue ha appesantito il quadro per le imprese, ma questo non significa – come vorrebbero alcune forze politiche anche di governo – buttare con l’acqua sporca anche il bambino, cioè la rotta verso la decarbonizzazione? 

«Buona sintesi. È vero però che il rispetto dell’ambiente, la sostenibilità, la lotta all’inquinamento sono tutti obiettivi nobili, poi bisogna trovare le strade pratiche per realizzarli. La sfida quindi oggi è come compendiare quella visione con le esigenze di sviluppo industriale, tenendo a mente che tra i blocchi globali ce ne sono di molto meno sensibili di noi sull’ambiente, oltre che sui diritti. È questa la strada d’altra parte che si sta cercando di percorrere ora a livello Ue con la direttiva Omnibus».

A proposito di Ue, si parla molto in questi giorni di cosa i singoli governi e le istituzioni comunitarie possono fare per far scudo alle imprese. Priorità dal vostro punto di vista?

«Non dimentichiamo com’è fatto il nostro tessuto produttivo: all’80-90% di Pmi. Serve sicuramente uno sforzo del sistema, Italia ed Europa, che aiuti queste realtà a reindirizzare le loro scelte di sviluppo economico. Si parla molto di possibili sostegni – l’ultima idea è quello di ridirigere fondi non spesi dal Pnrr – ma dal mio punto di vista il tema del finanziamento in sé e per sé, magari a pioggia com’è stato in anni recenti col Superbonus, non fa la differenza se non si abbina la dimensione di progettualità. Serve che istituzioni e soggetti che hanno la posizione e il know-how necessario – da Sace a Confindustria – forniscano quei servizi in grado di far crescere le imprese anche in termini di mentalità. Sul fronte finanziario, se mai, quello di cui c’è bisogno ora è che le che banche stiano più che mai vicino alle imprese, anche approfittando della fase positiva di consolidamento del sistema bancario. Significa operare nei territori, supportare l’internazionalizzazione e gli investimenti, sostenere iniziative di filiera. E anche i soggetti di private equity potrebbero entrare in gioco con un ruolo importante».

Immagine di copertina: ID 43662384 © Cammeraydave | Dreamstime.com

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