Lucio Miranda (ExportUsa): «Le aziende italiane possono limitare l’impatto dei dazi. Trump è un Mike Tyson, meglio per Meloni non fare a botte» – L’intervista


Per alcuni è la fine della globalizzazione, per altri una semplice battuta d’arresto. Fatto sta che la guerra dei dazi scatenata da Donald Trump rischia di stravolgere i rapporti tra Stati Uniti ed Europa, non solo a livello diplomatico ma anche commerciale. A farne le spese sono (anche) le aziende del Vecchio Continente, in particolare quelle che negli anni hanno puntato sulle esportazioni verso gli Stati Uniti. Come dovrebbero rispondere all’ondata di dazi imposti da Washington? Lo abbiamo chiesto a Lucio Miranda, presidente e fondatore di ExportUsa, una società di consulenza che aiuta le aziende italiane ad avviare un’attività negli Stati Uniti.
ExportUsa fornisce consulenza alle imprese che vogliono entrare nel mercato americano. Avete registrato un aumento di richieste dopo l’annuncio dei dazi di Trump?
«Siamo sommersi da richieste di spiegazioni e di aiuto, soprattutto per calcolare l’impatto dei dazi sulle esportazioni. Non avevo mai visto giornate così, nemmeno dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 o il fallimento di Lehman Brothers nel 2008».
Ci sono aziende che stanno già pensando di spostare la produzione negli Usa?
«Investire negli Usa è una decisione di un certo peso. Stiamo seguendo diversi progetti, ma sono stati lanciati prima degli annunci sui dazi. Aprire una sede negli Usa è un passo che va programmato per tempo, non si può decidere di pancia. In questo momento, le aziende italiane ci chiedono soprattutto cosa si può fare per ridurre l’impatto dei dazi».
E cosa si può fare per ridurre l’impatto dei dazi?
«Si possono fare molte cose: alcune semplici e immediate, altre meno. Per esempio, si può optare per diverse tecniche di importazione, ma la soluzione va valutata sempre caso per caso».
Ci fa almeno un esempio?
«Se sono un’azienda che esporta negli Stati Uniti ma non produce, si può fare in modo di calcolare il dazio all’importazione non sul prezzo di import, ma sul prezzo che io ho pagato al mio fornitore. Questa tecnica funziona bene soprattutto se compro da terzi o se svolgo attività di logistica, marketing o stoccaggio.
Ci sono settori da cui ricevete un numero particolarmente elevato di richieste?
«No, abbiamo clienti di tutte le classi dell’export italiano: agroalimentare, vino, meccanica, automazione industriale, cosmetica, integratori alimentari, mobili. Ci stanno contattando davvero da ogni parte».

Per chi non ha intenzione di aprire una sede negli Usa, esportare negli Stati Uniti diventa senz’altro più complicato. Non conviene guardare ad altri mercati, magari dove i presidenti non minacciano dazi contro tutto il resto del mondo?
«Se un’azienda italiana non ha mai esportato negli Stati Uniti, questa situazione rappresenta un’opportunità. Innanzitutto, perché oggi aprire uno stabilimento negli Usa è ancora più conveniente che in passato. In fondo i dazi di Trump servono proprio a quello: a far tornare in America le aziende che oggi producono in Cina. Ma a prescindere da ciò, gli Usa restano il mercato per eccellenza, dove l’economia cresce, i consumi aumentano, la disoccupazione è bassa. E poi quali sarebbero i mercati alternativi? Per entrare in Cina i problemi non mancano, mentre in Sud America i dazi esistono già da tempo».
I dazi di Trump non rischiano di danneggiare i prodotti del Made in Italy?
«Prendiamo il caso del prosecco, per cui si leggono da giorni notizie da fine del mondo e si preannuncia un crollo delle vendite. Se ci sganciamo dalle percentuali e guardiamo ai numeri reali, l’impatto sui prezzi potrebbe essere molto contenuto. Prima dei dazi, il prezzo medio di importazione del prosecco negli Usa era di 4,58$ al litro. Con i dazi al 20%, il prezzo medio di importazione passerebbe a 5,54$, ossia una differenza di 96 centesimi al litro. Ora prendiamo in considerazione il prezzo medio al dettaglio del prosecco in America, che va dai 15 a 25 dollari. Non credo che 96 centesimi faranno tutta questa differenza».
Questo ragionamento vale solo per il prosecco?
«No, vale vale per tutti quei prodotti che hanno una catena di distribuzione lunga, come i vini, i liquori e l’agroalimentare. In tutti questi casi abbiamo una situazione caratterizzata da un alto prezzo al dettaglio ma un basso prezzo all’import. Ed è proprio su quest’ultimo che si calcola il dazio, non sulla cifra che vediamo sullo scaffale al supermercato».
Resta il fatto che le tensioni commerciali tra Usa e Ue potrebbero scoraggiare molte imprese italiane a puntare sul mercato americano.
«Il 2 aprile non è stata la fine, ma l’inizio di una nuova fase cominciata con l’aumento dei dazi e che ora continua con le negoziazioni. L’obiettivo di Trump è strappare concessioni commerciali all’Europa, si arriverà a una nuova fase di stabilità che farà abbassare di nuovo i dazi».
Oggi, mercoledì 9 aprile, l’Unione europea approverà le prime contro-tariffe sui prodotti americani, che scatteranno la prossima settimana. Come giudica la strategia europea?
«A me sembra che l’Europa abbia dato una risposta misurata e ragionevole. Il fatto che non sia partita “lancia in resta”, ma condizionando la risposta ai risultati della negoziazione denota un atteggiamento responsabile, razionale e intelligente».
Eppure, tra gli stessi leader europei continuano a esserci sensibilità diverse. Emmanuel Macron, per esempio, ha chiesto alle aziende francesi di sospendere gli investimenti negli Stati Uniti.
«Se un’azienda che produce automazione o macchinari industriali ha un mercato negli Stati Uniti, perché dovrebbe fermarsi? A me non sembra una risposta molto sensata».
Chinare la testa e obbedire a ciò che dice Trump non equivale a premiare il suo atteggiamento aggressivo?
«Non direi. Per quanto possa essere difficile, credo che dovremmo eliminare l’aspetto emotivo e personale quando ascoltiamo ciò che dice Trump. Lui parla in quel modo perché si rivolge più ai suoi elettori che a noi. Ma se leviamo tutti questi aspetti propagandistici ed emotivi, ci accorgiamo che i dazi non sono altro che un saldo di apertura per arrivare a negoziare, quindi prepariamoci a farlo. Anche quella di Macron, in fondo, non è altro che una postura negoziale».
A proposito di negoziati, la strategia del governo italiano di fare da ponte tra Usa e Ue non sembra aver funzionato granché, almeno per ora.
«Cos’altro doveva fare Giorgia Meloni? Se vai per strada e ti imbatti in Mike Tyson eviti di farci a botte. La premier ha avuto sicuramente un atteggiamento più cauto e meno emotivo, ma anche dagli altri leader europei non mi pare siano arrivate dichiarazioni particolarmente eclatanti».
In Spagna il governo di Pedro Sánchez ha reagito ai dazi con un piano da 14 miliardi per aiutare le imprese più colpite dai dazi. Dovrebbe fare lo stesso anche l’Italia?
«Il piano di Sánchez è una bufala, con 14 miliardi non ci compri neanche la carta igienica. In Italia abbiamo un programma di Sace e Simest che funziona benissimo, prima ancora che salisse in carica il governo Meloni. Se l’export italiano è cresciuto esponenzialmente negli ultimi 15 anni è proprio per questo».
Foto copertina: EPA/Yuri Gripas | Il presidente americano Donald Trump durante un incontro alla Casa Bianca, 7 aprile 2025