Sorpresa dei big della finanza Usa, nessuno oggi osa attaccare Trump. Dazi? «La bufera passerà». E sperano tutti nella deregulation bancaria


Nonostante la tempesta che ha fatto salire i mercati sull’ottovolante facendo perdere non pochi soldi a tutti, quasi nessuno dei grandi banchieri e finanzieri americani se l’è presa pubblicamente con Donald Trump e l’altalena dei dazi. Forse non trovando il coraggio o semplicemente per non spaventare ulteriormente la clientela peggiorando le cose. Ma negli ultimi giorni quasi tutti nelle call con gli analisti finanziari per presentare i risultati del primo trimestre 2025 (con numeri record), pur ammettendo che le incertezze sul commercio internazionale pesano, hanno cercato di fare capire come anche in questa situazione loro abbiano l’opportunità di fare ugualmente soldi. Tanto è che nessuna delle grandi banche e istituzioni finanziarie nell’occasione ha cambiato le proprie previsioni sul risultato di fine anno rispetto a quelle date a gennaio. Il vero accento critico sulle tariffe è stato proprio sulla misura accolta con un certo sollievo nel resto del mondo e nell’immediato pure dai mercati: la sospensione del loro effetto per 90 giorni. Secondo i principali banchieri americani, infatti, proprio questa scelta mette a rischio il loro futuro, allungando il periodo di incertezza e probabilmente provocando negoziati ancora più lunghi e incerti. Per alcuni di loro in quei colloqui il caos tariffe però sarebbe compensato e anche più dal guadagno che verrebbe da una deregulation bancaria e finanziaria promessa da Trump e a cui sta effettivamente lavorando il segretario al Tesoro Scott Bessent.
Goldman Sachs: il piano di Trump «è lodevole» su dazi e deregulation
«L’attenzione dell’Amministrazione Trump sul rafforzamento della posizione competitiva degli Stati Uniti», ha per esempio sostenuto davanti agli analisti David Solomon, presidente e amministratore delegato di Goldman Sachs group, «è lodevole. Allo stesso tempo è importante riconoscere che poche aziende hanno beneficiato di un ordine economico e finanziario post Seconda Guerra Mondiale più degli Stati Uniti. Ciò non significa che non siano necessarie riforme significative in alcuni settori». Una sorprendente carezza all’amministrazione Trump, a cui Salomon ne ha aggiunta una seconda, proprio sulla deregulation: «Apprezziamo», ha detto, «la forte attenzione dell’Amministrazione nel calibrare adeguatamente la regolamentazione per il settore dei servizi finanziari. A seguito della recente nomina di Michelle Bowman a Vicepresidente della vigilanza presso la Federal Reserve, continueremo a impegnarci attivamente su questi temi e speriamo di vedere progressi sostanziali in materia di capitale, leva finanziaria, liquidità e vigilanza».

BlackRock: «Non ci sono rischi sistemici, faremo gli stessi guadagni previsti prima»
Se Solomon è stato uno zuccherino per Trump, un altro dei grandissimi banchieri come il presidente e amministratore delegato di BlackRock, Laurence Fink, ha spiegato la preoccupazione per una situazione di incertezza che lui non aveva mai visto in 49 anni in questo modo, ma ha aggiunto che «le opportunità di investimento negli Stati Uniti continueranno ad essere molto rilevanti», e che «la flessione del mercato è diversa da quella che abbiamo visto in altri shock della crisi finanziaria. Non vediamo rischi sistemici, non c’è una pandemia. Ovviamente c’è incertezza a breve termine, ma le grandi tendenze macroeconomiche che erano in atto 80 giorni fa, in realtà sono ancora presenti». Fink ha spiegato di non avere visto nemmeno con il crollo dei mercati «una vera capitolazione dei clienti azionari. In realtà nella maggiore parte dei casi, sempre più clienti ci chiedono quando dovrebbero entrare a comprare azioni». Anche dalla crisi dei mercati, quindi, può nascere una opportunità: «queste dinamiche», ha spiegato il numero uno di BlackRock, «potrebbero indirizzare ancora più flussi di capitali verso i mercati privati, poiché gli investitori cercano di isolare i portafogli dagli impatti tariffari e cercano reddito e crescita interessanti».
Bank of New York: «Preoccupa più l’incertezza per i 90 giorni di sospensione dei dazi»
Secondo il presidente e ad di Bank of New York, Robin Vince, «gli annunci tariffari della scorsa settimana facevano chiaramente parte di una strategia più ampia e di uno sforzo per ripristinare le relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Si tratta di un tentativo di cambiamento molto radicale. E mentre gli annunci della scorsa settimana hanno fornito una base di partenza, dovremmo aspettarci che i negoziati richiedano tempo, ed è probabile che non si arrivi a un quadro finale chiaro per un po’ di tempo, una visione ribadita dalle notizie di mercoledì su una pausa di tre mesi e dalla volatilità del mercato che abbiamo visto di nuovo ieri». Ed è appunto questa tregua quella che preoccupa di più i banchieri. Ma non in modo drammatico: «Sebbene sia chiaro che le prospettive per il contesto operativo sono diventate più incerte», ha detto Vince, «le nostre previsioni finanziarie e con esse la nostra determinazione a guidare una leva operativa positiva in un’ampia gamma di scenari rimangono invariate rispetto alla call di fine gennaio. Ciò significa che continuiamo ad aspettarci che il margine di interesse per l’intero anno 2025 aumenti di una percentuale a una cifra intera rispetto all’anno precedente».

Morgan Stanley: «Partita importante, e supereremo le difficoltà»
Non si straccia le vesti nemmeno il gran capo di Morgan Stanley, Ted Pick: «Siamo ancora all’inizio», ha sostenuto davanti agli analisti, «e stiamo parlando della riorganizzazione della politica industriale nel contesto del ruolo dell’America nel mondo e di dove vuole essere tra decenni. È una questione importante, ma potrebbe essere che, per alcuni dei negoziati bilaterali, ci voglia un po’ di tempo, ma in altri contesti, in realtà, alcuni accordi vengono messi sul tavolo, nel qual caso, la gente vorrà andare avanti». Pick è cautamente ottimista anche sul futuro: «All’inizio del trimestre, non abbiamo riscontrato alcun rallentamento. È più difficile per alcuni clienti? Certo che lo è e dobbiamo vedere come reagiranno nel corso delle prossime settimane e dei prossimi mesi. Ma siamo ancora oserei dire cautamente ottimisti sul fatto che non entreremo in recessione e che continueremo ad andare avanti». E secondo il banchiere di Morgan Stanley la partita che Trump sta giocando è sì rischiosa, ma non strampalata: «Stiamo parlando di ristrutturare la politica industriale nel contesto del ruolo che l’America riveste oggi e di dove vuole essere tra decenni. Si tratta di mettere ordine nella nostra situazione fiscale e di come questo interagisce con la tassazione e la deregolamentazione future. Quindi, in un contesto più ampio, stiamo parlando di correggere i nostri squilibri e quindi di ridefinire ciò che è nell’interesse nazionale a lungo termine dell’America. Queste sono questioni importanti. Complesse e intricate, senza dubbio».

Mezza retromarcia del solo banchiere critico, Dimon di JP Morgan
Il solo banchiere che ha criticato pubblicamente Trump sui dazi, e cioè Jamie Dimon, il capo assoluto di JP Morgan Chase & co, incontrando gli investitori a sorpresa non ha calcato la mano. Anzi, ha fatto un mezzo passo indietro a dimostrazione che in questo momento nemmeno i veri potenti d’America se la sentono davvero di andare a testa bassa contro Trump e la sua Amministrazione. «Alcune delle questioni sollevate», ha risposto Dimon a una domanda sui dazi sollevata dall’analista di Bank of America, «esistevano già prima della nuova Amministrazione, come la situazione geopolitica, i deficit fiscali eccessivi, le normative mal fatte e tutto il resto. Ovviamente, è positivo essere a favore della crescita, delle imprese e della deregolamentazione. Penso che la cosa migliore da fare sia permettere al Segretario del Tesoro e alle persone che lavorano con lui nell’Amministrazione di concludere il più rapidamente possibile gli accordi che devono fare con i nostri partner commerciali, per quanto riguarda le tariffe. E penso che ci saranno accordi di principio, non saranno… gli accordi commerciali stessi sarebbero lunghi 5.000 o 10.000 pagine. E questo è il modo migliore per procedere in questo momento. Ciò non significa che non si verificheranno comunque alcuni degli effetti». E l’uomo di JP Morgan ha versato camomilla sulla appetibilità dei titoli di Stato americani: «L’idea che il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni debba scendere è falsa», anche se sono difficili grandi previsioni sul futuro: «Ce la faremo. Abbiamo già avuto delle recessioni e cose del genere. Certo, la questione della Cina è una questione importante. Non so come andrà a finire. Ovviamente dobbiamo seguire la legge del paese, ma è un cambiamento significativo che non abbiamo mai visto in vita nostra…»