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Mediobanca: i migranti rispondono alle culle vuote ma in Italia trovano lavoro povero e non qualificato provocando così la caduta della produttività

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Nel report della banca d'affari appena diffuso si mette in luce i vantaggi di una corretta gestione dei flussi migratori, che in mezza Europa aiuta l'economia. Ma in Italia no, ecco perché.

L’arrivo di migranti e rifugiati può dare una grossa mano per compensare il calo demografico dell’Italia, ma l’impatto sulla crescita economica è molto minore di quello che potrebbe essere. È quanto emerge da un report dell’area studi di Mediobanca, intitolato L’impatto economico di migranti e rifugiati sui Paesi ospitanti. Un’analisi di natura puramente economica, che – ci tengono a precisare gli autori – non prende in considerazione tutte le implicazioni umanitarie, sociali, culturali e persino politiche. Se si volesse riassumere in poche parole il contenuto del report di Mediobanca, si potrebbe dire che l’immigrazione ha certamente ricadute più positive che negative sull’economia. Ma i benefici dipendono in larga parte dalle politiche di integrazione e dalla “tipologia” di migranti che ciascun Paese accoglie. E nel caso dell’Italia, fanno notare gli esperti di Mediobanca, si assiste a «una sorta di circolo vizioso».

Il cortocircuito dell’Italia su immigrazione ed economia

In Italia, si legge nel report, c’è «un’ampia disponibilità di lavori non qualificati». Ma, allo stesso tempo, «si rileva una scarsa disponibilità della forza lavoro locale ad accettarli». Detta in altre parole: ci sono tante mansioni, a basso valore aggiunto e mal retribuite, che gli italiani non vogliono più fare. Il risultato è che alla fine sono proprio gli immigrati – anche quelli con una qualifica più elevata – a occupare quei posti di lavoro, al punto che si crea una situazione paradossale: un immigrato extra-Ue in Italia ha una probabilità più alta di trovare un’occupazione elementare rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa. Questo meccanismo avrà anche un effetto positivo sul mercato del lavoro, ma rappresenta un importante freno all’economia, specialmente a lungo termine. «Le aziende – si legge nel report di Mediobanca – tendono ad approfittare della forza lavoro degli immigrati per ridurre i costi e aumentare i profitti, generando inefficienze ed effetti negativi a lungo termine sulla crescita della produttività». Il risultato è che in Italia «un aumento dell’1% nella quota di immigrati extra-Ue si traduce in una diminuzione media della produttività del lavoro di circa 0,5 punti percentuali».

I migranti e la spesa per le pensioni

E pensare che, se gestita correttamente, l’immigrazione potrebbe contribuire a risolvere alcuni problemi ben noti dell’Italia, a partire dalla sostenibilità del sistema pensionistico. In uno scenario in cui il governo dovesse azzerare l’ingresso di immigrati, il debito pensionistico italiano arriverebbe a pesare il 16,2% del Pil nel 2070. Con i flussi migratori attuali, invece, la percentuale si fermerebbe al 13,6%. Lo stesso discorso si può fare anche per il declino demografico. «Per compensare l’eventuale azzeramento dell’ingresso dei migranti – si legge nel report – il tasso di fecondità domestico al 2070 si dovrebbe portare a 2,1 (da 1,24 del 2022), ovvero sui livelli pari a quelli degli anni Settanta del Novecento». Peccato che ad oggi nessun Paese avanzato ha un simile tasso di fecondità, né è mai riuscito a registrare una crescita così rapida e in così breve tempo. La Svezia, uno dei Paesi più fecondi, si colloca attorno a 1,9.

Per la crescita del Pil meglio subito i migranti economici dei rifugiati

Per quanto riguarda l’impatto dell’immigrazione sulla crescita economica, il report di Mediobanca mette insieme le conclusioni a cui sono arrivati i maggiori esperti in tempi recenti. Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, «un incremento dell’1% nel rapporto tra immigrati e popolazione adulta (impatto rilevante, considerato che l’afflusso annuo è nell’ordine dello 0,2%) genera un incremento del PIL fino al 2% nel lungo periodo». Allo stesso tempo, tracciare un legame di causa-effetto potrebbe essere più complicato del previsto. Da un lato, potrebbero essere proprio i migranti a favorire la crescita economica del Paese che li ospita. Ma dall’altro, fa notare il report, «non si può escludere che siano i migranti stessi, soprattutto quelli economici, a scegliere quale propria destinazione i Paesi che già di per sé presentano le migliori prospettive di crescita». Tutte queste considerazioni, poi, valgono solo per i cosiddetti «migranti economici», ossia coloro che lasciano il proprio Paese di origine per migliorare le condizioni di vita e cercare un lavoro. Se si guarda ai rifugiati, spiegano gli esperti di Mediobanca, l’integrazione nel mercato del lavoro «appare inefficiente e non foriera di significativa crescita economica». I motivi, d’altronde, sono anche facili da immaginare. Innanzitutto, i rifugiati «hanno sovente alle spalle vissuti segnati da violenze, traumi, lunghi viaggi», che rendono «più rapido lo scadimento del loro capitale umano e obiettivamente più complesso l’inserimento completo nel Paese di propria destinazione finale». A tutto ciò si aggiungono poi eventuali problematiche di salute, fisica o psicologica, di cui i rifugiati spesso sono portatori. C’è soprattutto una variabile che può fare la differenza nel percorso di integrazione: il tempo. Dopo circa dieci anni di permanenza in un Paese, fa notare il report, «i tassi di occupazione dei rifugiati e quelli dei migranti tendono a convergere in maniera significativa».

Foto copertina: Dreamstime/Randy Fletcher

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