Salario minimo
La Direttiva
L’imminente approvazione di una Direttiva sul salario minimo, anticipata dall’accordo politico raggiunto in questi giorni presso le istituzione comunitarie, rimette al centro del dibattito un tema dai grandi risvolti tecnici e politici. La proposta di Direttiva, una volta che sarà approvata dal Parlamento europeo e ratificata dal Consiglio UE, avrà un forte impatto politico, ma un limitato impatto tecnico nel nostro Paese: la proposta, infatti, vincola all’adozione di meccanismi in grado di assicurare un salario minimo solo per quei paesi dove non c’è una legge sul tema o, in alternativa, un’adeguata copertura dei contratti collettivi. L’Italia ricade proprio in questa situazione: pur non avendo una legge sul salario minimo, ha un’ampia diffusione della contrattazione collettiva, e quindi non rientra tra i Paesi vincolati all’attuazione della Direttiva Comunitaria.
Le proposte in Parlamento
Nonostante il nostro Paese non abbia un obbligo di attuare la proposta di Direttiva, in Parlamento giacciono tantissime proposte di legge sul salario minimo. Si va dalla proposta S.310 (Laus e altri) che prevede l’istituzione di un salario minimo orario non inferiore ai 9 euro, all’atto C.682 (Pastorino) , che prevede un salario minimo orario, sostituito dalle previsioni dei contratti collettivi se di importo maggiore, pari al 50% del salario medio. C’è poi la proposta S.658 (Catalfo e altri) che prevede un salario minimo orario non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazione comparativamente più rappresentative, e comunque non inferiore a 9 euro, e l’atto C.947 (Delrio e altri) che affida a un decreto ministeriale annuale, su parere di una commissione di esperti, la fissazione del minimo orario legale. Non manca chi propone di affidare (C.1542, Rizzetto) a una Commissione di esperti la determinazione del salario orario minimo legale, da aggiornare triennalmente secondo parametri indicati, o chi (S.1132, Nannicini e altri) rinvia ai contratti collettivi la fissazione del salario minimo.
La valenza politica del tema
Come mai, a fronte di una Direttiva comunitaria che non fissa un obbligo di attuazione, il Parlamento discute in maniera molto estesa il tema, come se ci fosse comunque l’urgenza di intervenire? Questo accade perché il salario minimo è un tema politicamente molto accattivante, è una misura che rischia di dare l’illusione che esista una soluzione semplice a problemi complessi, un pò come quando qualcuno, incautamente, sognava di abolire la povertà per legge. Come tutte le soluzioni semplici per problemi complessi, però, questo rimedio, se male attuato, rischia di essere in parte inutile e in parte dannoso: proviamo a spiegare perché.
Un salario minimo già esiste: i minimi dei contratti collettivi
Il legislatore comunitario ha esentato l’Italia dall’obbligo di applicare la Direttiva in quanto si è reso conto di un fatto decisivo che la nostra politica fatica a comprendere: una legge sul salario minimo è necessaria solo dove manca una forte ed estesa copertura della contrattazione collettiva. È invece meno urgente in una situazione – come quella dell’Italia – in cui nessun datore di lavoro è libero di decidere autonomamente il valore orario del salario.
Nel nostro sistema, infatti, già ci sono delle soglie minime che devono essere rispettate e sono quelle fissate dai contratti collettivi siglati dalle rappresentanze dei lavoratori più rappresentativi: che il datore di lavoro lo voglia oppure no, questi minimi – grazie ad alcuni sofisticati meccanismi messi in piedi dalla giurisprudenza – sono vincolanti per tutti.
Rispetto a questa situazione, una legge sul salario minimo sarebbe ininfluente o inutile, perché i contratti sono tutti ben al di sopra delle soglie di cui si parla.
I contratti collettivi sono talmente vincolanti che negli ultimi anni si sta diffondendo il fenomeno dei cd. contratti pirata: accordi firmati da sindacati con pochissimi iscritti, che aggirano il problema del minimo retributivo fissando una soglia più bassa rispetto a quella stabilita dai contratti più rappresentativi. Ma si tratta di forme di elusione che vanno combattute con i tanti strumenti che già esistono (o con nuovi strumenti, come diremo dopo).
Il salario minimo legale potrebbe abbassare le retribuzioni
Facciamo finta di non considerare quanto appena detto e pensiamo a cosa accadrebbe se il Parlamento decidesse comunque di approvare una delle proposte di legge sul salario minimo. Abbiamo visto che le soluzioni in fase di discussione sono molto diverse, quindi possiamo fare solo un ragionamento ipotetico. Ma se fosse adottato un sistema che individua uno strumento diverso dal contratto collettivo per definire il valore minimo inderogabile delle retribuzione, si farebbe un danno enorme proprio a quei lavoratori che, in teoria, dovrebbero beneficare della tutela. Questo accadrebbe perché, a fronte di un minimo legale troppo basso, si verrebbe a creare una spinta al ribasso di tutti i futuri rinnovi contrattuali (le parti datoriali sarebbero naturalmente spinte ad avvicinarsi verso la soglia legale).
Se invece il minimo legale fosse troppo alto, si rischierebbe di mettere fuori gioco alcuni contratti collettivi che oggi sono al di sotto della soglia, facendo salire il costo del lavoro regolare e spingendo alcune attività verso il lavoro nero o irregolare. Insomma, il salario minimo legale in un sistema dove già esiste una forte copertura della contrattazione collettiva andrebbe a manomettere quel sistema di tutela delle retribuzioni nella parte che oggi funziona bene, senza aggiungere tutele a chi ne risulta sprovvista.
Per un salario minimo dei precari
Il vero grande problema che dovrebbe affrontare e risolvere una legge sul salario minimo sarebbe molto più impegnativo di quelli che oggi sono al centro del dibattito politico. Un intervento sul tema non dovrebbe manomettere quello che già funziona – il sistema dei minimi previsti dalla contrattazione collettiva – ma dovrebbe avere l’obiettivo, molto più ambizioso e complesso, di andare ad estendere il campo di applicazione della contrattazione collettiva in favore di quei soggetti che non sono coperti da tale strumento: i lavoratori destinatari dei contratti collettivi pirata e quelli impiegati con contratti falsamente autonomi.
A questi lavoratori andrebbe esteso quel sistema di tutela di chi beneficiano i loro colleghi assunti con contratti regolari (i lavoro a tempo indeterminato, ma anche quelli assunti con contatti di somministrazione e rapporti a tempo determinato, che sono contratti flessibili ma garantiscono la piena tutela legale e collettiva). Per allargare il campo di applicazione dei contratti collettivi bisognerebbe agire in due direzioni.
In primo luogo, bisognerebbe combattere i cd. contratti pirata, quei contratti stipulati da associazioni sindacali che rappresentano pochissimi lavoratori e fissano standard minimi inferiori rispetto ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni confederali (i meccanismi per condurre questa azione di contrasto sono tanti, alcuni già presenti nelle proposte di legge che giacciono in Parlamento: bisogna solo crederci).
In secondo luogo, si dovrebbe affidare ai contratti collettivi il compito di fissare un compenso minimo per le attività svolte da lavoratori che sono autonomi solo formalmente, stabilendo dei meccanismi di applicazione automatica di tale compenso al verificarsi di alcuni indici presuntivi di subordinazione. Questi interventi chirurgici forse avrebbero un impatto mediatico meno forte rispetto alle dichiarazioni roboanti che sentiamo troppo spesso sul salario minimo, ma avrebbero un effetto sicuramente forte nell’innalzamento delle tutele per i lavoratori che oggi stanno fuori dal perimetro dei contratti collettivi e delle tutele.
Testo di Giampiero Falasca