In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
ESTERIBrexitRegno UnitoUnione europea

Chi parte e chi resta: i costi economici della Brexit

04 Marzo 2019 - 06:19 OPEN
Per il governo britannico la Brexit dovrebbe avere un impatto negativo sull'economia. Molto dipenderà dalle modalità dell'uscita. Ma per il momento il sistema economico pare reggere abbastanza bene. Con qualche eccezione piuttosto preoccupante

I puristi della Brexit lo chiamano Project Fear. Un’invenzione dei disfattisti e lagnosi remainer, quelli che vogliono che il Regno Unito rimanga a tutti costi nell’Unione europea e cercano di mettere paura al Paese esagerando i rischi economici della Brexit. Una campagna della paura che sarebbe iniziata nei mesi prima del referendum del 2016 ma che, con le trattative ancora in corso e la possibilità di un secondo referendum alle porte, rimane tuttora rilevante.

Ma i cosiddetti fomentatori della paura non sono soltanto politici o attivisti. Il Governatore della Banca d’inghilterra, il canadese Mark Carney, nel settembre del 2018 aveva avvertito che un'uscita senza accordo avrebbe potuto essere peggio della crisi economica del 2008.

Un rapporto del Governo britannico uscito nel novembre dello stesso anno ipotizzava una decrescita del 3,9% in 15 anni con l'uscita negoziata da Theresa May. Nel caso di un'uscita senza accordo – tanto agognata dai puristi della Brexit – l'impatto economico (in negativo) potrebbe essere di ben 9,3%.

Per il momento, l'economia britannica sembra reggere il colpo. Nonostante il calo registrato nell'ultimo trimestre – il Pil è cresciuto del 0,2%, dopo lo 0,6% dei mesi precedenti – le stime per il 2019 sono comunque di crescita, anche se in ribasso rispetto al 2018: +1,2% anziché +1,4% registrato nell'anno scorso. L'impatto ovviamente non è e non sarà distribuito equamente su tutta l'economia.

Alcuni settori soffriranno più di altri. Ci sono già segnali preoccupanti che arrivano non soltanto dalla politica, ancora divisa su come procedere, nonostante manchino poco più di tre settimane alla Brexit (prevista per il 29 marzo), ma anche in alcuni tra i maggiori settori dell'economia.

Il settore finanziario

Per anni Londra è stata la capitale della finanza europea. Attualmente non ha rivali all'interno dell'Ue. I suoi competitori principali sono New York, Hong Kong, Tokyo e Singapore. Il valore economico del settore è immenso. Nel 2015 il surplus commerciale è stato di ben 63 miliardi di sterline.

Una ricchezza che non è limitata soltanto a Londra. Il settore dà lavoro a più di 150 mila persone in Scozia, 50 mila in Galles e 32 mila nell'Irlanda del Nord. La prima banca ad annunciare che se ne sarebbe andata dal Regno Unito è stata la Russian investment bank VTB.

Secondo l'ultimo rapporto Brexit Tracker della società di consulenza Ernst&Young al 30 novembre 2018 circa un terzo su 220 società finanziarie avevano già provveduto o stavano pensando di spostare uffici e dipendenti in Europa per un totale di circa 7 mila posti di lavoro. I primi beneficiari sarebbero Dublino, Lussemburgo, Francoforte e Parigi.

Sempre secondo E&Y venti di queste compagnie avrebbero già spostato circa 800 miliardi di sterline in assets nel Regno Unito. Poco rispetto al valore complessivo (8 trilioni di sterline), ma una cifra comunque considerevole. L'avvicinarsi di un "no deal", un'uscita senza accordo, potrebbe però far crescere repentinamente il totale.

Il settore manifatturiero

Nel suo complesso, il settore manifatturiero per il momento non ha riscontrato grandi problemi. Per la confindustria britannica – the Confederation of British Industry (CBI) – al febbraio 2019 le ordinazione erano superiori alla media. Nell'ultimo trimestre alcuni settori – come quello chimico o alimentare – hanno attraversato un periodo di crescita. A faticare di più sono stati il settore dell'ingegneria meccanica e dei veicoli a motore, in particolare il settore automobilistico. Nel 2018 gli investimenti nell'automobile si sono dimezzati e la produzione è stata la più bassa negli ultimi 5 anni.

Uno dei casi più eclatanti riguarda la Nissan. All'inizio del mese di febbraio la compagnia giapponese ha annunciato che non avrebbe più fatto costruire un modello SUV nell'impianto a Sunderland, al Nord dell'Inghilterra, dove impiega circa 6 mila 500 persone (ironia della sorte: la maggior parte dei residenti della città avevano votato a favore dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea).

Jaguar Land Rover ha già annunciato una serie di tagli al personale – 4,500 nel mondo, ma principalmente nel Regno Unito. Anche in questo caso molto dipenderà anche dal tipo di Brexit che ci sarà. Un "no deal" Brexit potrebbe avere conseguenze economiche molto più gravi e durature nel tempo dovute, per esempio, all'introduzione di nuovi dazi sulle importazioni. Il settore automobilistico ha cercato di non farsi trovare impreparato. La BMW per esempio ha già cominciato a stoccare componenti in due magazzini diversi, uno sul continente, l'altro nel Regno Unito.

Articoli di ESTERI più letti