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La strage dei bambini in Siria e l’«effetto Alan»: coscienza collettiva vs «globalizzazione dell’indifferenza»

17 Febbraio 2020 - 06:57 Angela Gennaro
«Tre giorni di commozione e indignazione globale e poi si lasciano morire bambini e bambine come se nulla fosse in quei territori nell'indifferenza generale e senza che nessuno osi dire basta». ATTENZIONE: IMMAGINI CHE POSSONO URTARE LA SENSIBILITA'

Quanto dura l’indignazione per una bambina morta di freddo tra le braccia di un padre disperato? Quanto dura la sollevazione dell’opinione pubblica per un altro bambino affogato e ritrovato su una spiaggia con la sua maglietta rossa?

Qual è la soglia di sopportazione? Cosa provoca e cosa impedisce una mobilitazione? E quali sono le nostre responsabilità?

«Globalizzazione dell’indifferenza»

Papa Francesco la chiama – da tempo – «globalizzazione dell’indifferenza». La definisce così anche quando parla delle migrazioni che sono parte integrante di questa epoca: un fenomeno strutturale, qualcosa che andrà avanti per decenni, a prescindere da muri e frontiere. Mentre le paure dovrebbero lasciare spazio, dice, all’indole cristiana e in fondo umana. Parole per le quali il pontefice viene investito, on e offline, da molte critiche. A volte, addirittura, da accuse di blasfemia. Quasi fosse un traditore della causa, a ricordare quei valori di umanità su cui la causa di cui è portavoce sarebbe fondata.

C’entra, forse, il rapporto dei tempi moderni con la coscienza individuale e collettiva?

Wikipedia | Murale su Alan Kurdi a Francoforte in Germania

Il mondo si è di nuovo fermato in questi giorni, indignato, ferito e incredulo di fronte a Iman Mahmoud Laila, la piccola di un anno e mezzo morta assiderata all’alba del 13 febbraio in Siria.

Il freddo, il gelo, la guerra, la malattia: la sua famiglia è tra le migliaia di sfollati che cercano rifugio in campi profughi improvvisati per scappare dai bombardamenti aerei su Idlib, l’ultima provincia in mano ai ribelli. Il papà l’ha portata per due ore in braccio, avvolta in tutti i vestiti che i genitori possedevano per poterla salvare dal freddo. Nella neve, per cercare di raggiungere un ospedale dove Iman è arrivata morta.

Tristezza. Sincera, anche in chi la guerra non l’ha mai vista e vive quella vita assai diversa di chi è nato dalla parte più fortunata – da questo punto di vista – del mondo. È tristezza sincera, rabbia, vergogna quella che avvolge chi decide di guardare il film più urgente dell’anno, Alla mia piccola Sama. Di non chiudere gli occhi di fronte a quello che sta accadendo, alla guerra e alle sue conseguenze. Ma quanto dura questa tristezza, quando si nasce dal lato “fortunato” del mondo? Sulla sponda “giusta” del Mediterraneo, per esempio. E cosa ci si fa, da queste parti, con questo macigno sulla coscienza?

«Effetto Alan»

«È evidente che questa guerra come altre non è più nell’agenda del dibattito politico». L’accusa, dura, viene dal portavoce di Unicef Italia Andrea Iacomini. Sulla guerra in Siria, dice, e sull’indignazione per la morte di Iman Mahmoud Laila «siamo di fronte all’ennesimo ‘effetto Alan’: tre giorni di commozione e indignazione globale e poi si lasciano morire bambini e bambine come se nulla fosse in quei territori nell’indifferenza generale e senza che nessuno osi dire basta».

In Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Siria, in Palestina e tra i rifugiati in Turchia ci sono milioni di bambini e bambine indifese contro il freddo, dice Iacomini. «Solo in questi Paesi, ci sono quasi quattro milioni di bambini sfollati e 4,8 milioni di bambini che vivono come rifugiati. Lo scorso inverno, almeno 130 bambini sono morti lungo il tragitto o all’arrivo al campo di Al Hol, nel nord-est della Siria, dopo essere fuggiti da intense violenze a Baghouz e dintorni. Sta accadendo la stessa cosa nella zona di Idlib dove c’è l’inferno».

Ecatombe

Sono più di 800mila i siriani, per lo più donne e bambini, che stanno abbandonando le loro case da quando a dicembre è cominciata la campagna militare siriana per eliminare l’opposizione nella Siria nord-occidentale. Chi scappa dagli attacchi aerei dorme all’aperto, e per provare a creare un po’ di calore brucia l’immondizia.

Secondo le Nazioni Unite, nei campi profughi di Idlib è in corso «un’ecatombe di bambini»: per freddo e denutrizione. «Da anni denunciamo le gravi condizioni in cui versano i bambini profughi interni ed esterni siriani in questo periodo dell’anno», dice ancora Iacomini. «Da anni muoiono tante piccole Iman al freddo e al gelo in fuga dalla peggiore catastrofe umanitaria del pianeta ma sembra ogni volta che escono sui media queste notizie che nessuno sapeva nulla. Non è vero!».

Inferni

Era il 2015 quando il mondo si era fermato di fronte a un bambino il cui nome è ora portato da una nave ong che si occupa di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Alan Kurdi, siriano di etnia curda, aveva tre anni: la sua famiglia stava cercando di attraversare il mar Egeo in Grecia il 2 settembre 2015. 12 persone su un gommone che si è rovesciato al largo della costa turca: il corpo di Alan è stato portato fino alle coste di Bodrum, in Turchia, e lì ritrovato. Una scena che ormai è storia. Insieme a lui sono morti il fratello Ghalib e la madre Rehanna.

EPA/DOGAN NEWS AGENCY | Agenti turchi vicino al corpo senza vita di Alan Kurdi a Turchia, 2 settembre 2015

Fiumi di parole erano stati spesi sull’orrore di un’innocenza affogata, mentre l’opinione pubblica europea (tutta, senza sconti) scopriva un fenomeno che andava avanti ormai da anni e che solo raramente, fino ad allora, era diventato notiziabile. Mainstream, come si direbbe. L’accordo tra l’Unione europea e la Turchia sui flussi migratori è di poco tempo dopo.

E fiumi di parole sono stati spesi sull’opportunità di pubblicare le immagini il cui destino è stato quello di una inedita diffusione: i tre scatti del bambino senza vita della giornalista turca Nilufer Demir hanno costretto davanti a specchio e coscienza le redazioni di tutto il mondo. Pubblicare o no? Qual è il limite della decenza, della dignità, della tutela, del rispetto. Perché pubblicare?

Pubblicare. Alcuni lo hanno scelto per ragioni poco morali. Altri per genuino slancio: è tale lo strazio, è così piccolo quel corpo. Il mondo deve sapere.

L’unico sopravvissuto della famiglia Kurdi è papà Abdullah. Ora vivrebbe a Erbil, mentre moglie e figli sono seppelliti a Kobane. La zia di Alan, fin da subito, ha chiesto di smettere di usare la foto del nipote affogato. Volete qualcosa per la vostra coscienza? Volete parlare e condividere finalmente una riflessione partendo da quel corpicino? Condividete la foto di quel bambino in vita. Sorridente.

1877 persone (per quello che si sa) sono morte dal 2015 cercando di attraversare il Mediterraneo – centrale, ma anche sulle rotte est e ovest.

OIM | Missing Migrants Project

Foto del decennio, monito, occasione di dibattito giornalistico, geopolitico, sociologico, certamente deontologico. Cinque anni dopo, il mondo si interroga sulla morte per assideramento di una bambina di un anno e mezzo tra le braccia del padre. Alan Kurdi è morto invano? La sua morte, scriveva nel 2015 l’Independent, ha sì cambiato la conversazione globale sulla crisi dei rifugiati – e delle guerre, come quella in Siria, da cui queste persone scappano. Ma solo per un attimo.

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